venerdì 28 dicembre 2012

Siamo Nati A Matelica


*Ach, wo ist Juli
Und das Sommerland 
Quel giovanottone di provincia, però, si porta dietro anche qualcosa di più profondo e intenso, qualcosa di incancellabile e importante sul piano morale e culturale, dei sentimenti e delle attitudini. Porta con sé a Milano la marchigianità. Che non è solo quel radicamento, quel forte senso di appartenenza che lo spingerà a tornare ad Acqualagna e a Matelica nonostante il sovraccarico di impegni, in ogni occasione possibile. Mattei rivendicherà sempre, apertamente e orgogliosamente, il legame con la sua terra, delle cui sorti si preoccuperà, nei cui confronti si sentirà profondamente debitore, cercando continuamente di saldare quel debito con iniziative economiche e assistenziali. Per questo, e non per banale clientelismo, la maggior parte dei suoi collaboratori saranno marchigiani. Per uno di costoro, l’economista anconetano Giorgio Fuà le cose stanno semplicemente così: “I marchigiani amano la loro terra e ci vogliono tornare. Anche Mattei faceva tanto e appena poteva correva qui”. Ma per il sociologo Achille Ardirò la marchigianità è anche caparbia volontà di riscatto: “Credo che non si possa comprendere Mattei” ha scritto in un lavoro rievocativo negli anni Ottanta “senza tenere conto del suo essere marchigiano.[…] Le Marche […] erano una terra di laboriosissimi contadini ed artigiani, con un’enorme capacità di sacrifici e di imprenditorialità […] bloccata dalla mezzadria  e dalla lontananza dalle grandi aree metropolitane. Questa potenzialità, che è esplosa negli anni Sessanta e Settanta, […] formava grandi lavoratori in cerca di una liberazione dall’arretratezza dei rapporti sociali e dai vincoli geografici”. D’altra parte proprio la mezzadria così diffusa nelle Marche e in Romagna ha contribuito, secondo le analisi di molti storici, a sviluppare, generazione dopo generazione, quella imprenditorialità diffusa che ha fatto di quelle regioni due tra le più  laboriose e ricche d’Italia: il mezzadro in fondo era imprenditore di se stesso, anche se doveva versare la metà della sua produzione al “padrone”, e la sua più forte aspirazione era accumulare abbastanza denaro per comprare il fondo sul quale lavorava. E’ questa la marchigianità  che Mattei si porta dietro a Milano, non una forma patetica e folcloristica di nostalgia del focolare ma una quasi rabbiosa volontà di affermazione.
Carlo M. Lomartire - Mattei. Storia dell'italiano che sfidò i signori del petrolio

*“Ah! dov’è luglio e il paese d’estate?” (da Canto di Vita, Hugo von Hofmannsthal, trad. di Elena Croce)

giovedì 6 dicembre 2012

La Mort heureuse



Henri Cartier-Bresson, Albert Camus, Paris 1944 (collezione privata Lorenzo Gramaccioni)  

“Le chiedo scusa, Zagreus, ma è da molto che non parlo più di certe cose. Perciò non so più, o non so bene. Quando guardo la mia vita e il suo colore segreto, mi sento dentro come un tremito di lacrime. Come questo cielo. E’ pioggia e sole allo stesso tempo, mezzogiorno e mezzanotte. Ah, Zagreus! Penso alle labbra che ho baciato, al bambino povero che sono stato, alla follia di vita e di ambizione che mi trascina in certi momenti. Io sono tutte questa cose contemporaneamente. Sono sicuro che in certi momenti non mi riconoscerebbe. Eccessivo nell’infelicità, smisurato nella felicità, non so come dire”.

“Agisce contemporaneamente a vari livelli?”

“Sì, ma da dilettante” disse Mersault con veemenza. “Ogni volta che penso a questo cammino di dolore e di gioia in me, so bene, e con quale passione, che la parte che recito io è la più seria, la più inebriante di tutte”.


Albert Camus

lunedì 26 novembre 2012

Guglielmo Gramaccioni



Io come sono solo sulla terra
coi miei errori, i miei figli, l’infinito
caos dei nomi ormai vacui e la guerra
penetrata nell’ossa!... Tu che hai udito
un tempo il mio tranquillo passo nella
sera degli Archi a Livorno, a che invito
cedi – perché tu o padre mio la terra
abbandoni appoggiando allo sfinito
mio cuore l’occhio bianco?... Ah padre, padre
quale sabbia coperse quelle strade
su cui insieme fidammo!Ove la mano
tua s’allentò, per l’eterno ora cade
come un sasso tuo figlio – ora è un umano
piombo che il petto non sostiene più.

Giorgio Caproni     

giovedì 15 novembre 2012

Lettera a mia madre


Malopasso, Montagne della Duchessa – Novembre 2012

Cara Mamma,
Pamina e io siamo ancora latitanti: ci cercano i fascisti, per via del fallito progetto di far saltare in aria il Palazzo della Civiltà del Lavoro, ci cercano anche i Briganti,
per ragioni che ritengo opportuno non esplicitare in questa lettera.

Qui sulle montagne imperversa l’autunno; le albe sono azzurre rosa e arancioni, le foglie hanno il colore della senape, mentre il verde della corteccia degli alberi ricorda le biciclette Bianchi che sognavo di possedere da bambino.

Ieri sera siamo scesi a Cartore, invitati a cena da Renato, un amico milanese (della Comasina più precisamente) che purtroppo si fermerà solo tre mesi. Pamina cammina leggera sui sentieri invasi dalle foglie, io faccio un chiasso nanesco.

Mandami al più presto dei vestiti pesanti, tortellini in abbondanza e fammi sapere com’è finito il derby di domenica scorsa.

Ti voglio bene, tuo figlio

venerdì 28 settembre 2012

Benvenuta Pamina



Sono arrivato con Pamina al Monte Terminillo intorno alle 9:00. Nessuna traccia ricordava il passaggio del Duce così ci siamo incamminati lungo il sentiero che dal rifugio Sebastiani conduce alla vetta. Io indossavo pantaloncini di raso neri e occhiali con montatura arancione, Pamina un collare rosa e un guinzaglio dello stesso colore: fortunatamente nessuno ci ha fatto caso. Dopo un’ora abbiamo raggiunto la cima della montagna che era spazzata da terribili folate di vento nonostante il bel sole. Più avanti Pamina si è intrattenuta con un bovaro bernese, entrambi indifferenti alle evidenti differenze di stazza. Alle 12:15 ci siamo lasciati a sinistra la Sella di Leonessa e abbiamo consumato carne e vino al rifugio, alle 14:00 bevuto una grappa a Passo Corese e trenta minuti più tardi evitato l’ultimo posto di blocco sulla Salaria.

martedì 31 luglio 2012

In viaggio con papà



Momi, tu vuoi ch’io tenga la tua piccola mano
(oh calda e molle e dolce, come uccellino implume),
così, nella mia mano tutta raccolta e chiusa;
però ch’io son la forza onnipotente e buona
che fuga il male tristo e le fosche paure,
e comanda alla vita, e regna sul destino.

E non sai, creatura mia, che il tuo babbo grande
è un bambino anche lui: un piccolo bambino
smarrito fra i terrori della terra e del cielo;
un povero bambino che dentro sé si strugge
di non poter posare nella mano di Dio
la sua mano impotente e il suo fragile cuore.

Diego Valeri - Piccola Mano

giovedì 28 giugno 2012

Il Re del Bosco


Ma naturalmente rimango fermo come un sasso; e mi viene in mente ciò che ho letto in un breve saggio di Giorgio Agamben, Ninfe, quando ad un certo punto si afferma che “tra coscienza razionale e immaginazione sta uno spazio intermedio, chiaro e oscuro che possiamo chiamare penombra, e nel quale sono in gioco la coscienza e la libertà dell’uomo. L’umano si decide, cioè, in questa terra di nessuno fra il mito e la ragione, nell’ambigua penombra in cui il vivente accetta di confrontarsi con le immagini inanimate che la memoria storica gli trasmette per restituire loro vita…e solo in questo modo, nell’incontro con un individuo vivente, possono riacquistare polarità e vita. L’atto di creazione, in cui il singolo - artista o poeta, ma anche lo studioso  e, al limite, ogni essere umano - ha luogo in questa zona centrale fra i due opposti poli dell’umano".       


Roberto Varese - Il Re del bosco

giovedì 24 maggio 2012

L’enigma del Gorzano

Ci sono piccole, ma significative accortezze, che durante una passeggiata in montagna riescono senza dubbio ad agevolarne la buona riuscita. Ad esempio, se decidete di raggiungere la cresta del Monte Gorzano, non ha molto senso camminare per circa un’ora in direzione di una cima diversa, arrossire improvvisamente e, tornando indietro, accorgersi di non aver riconosciuto il Gran Sasso; l’esuberanza e la determinazione andrebbero poi accompagnate da uno straccio di “mappa dei sentieri”, in luogo di un anonimo pezzo di carta in cui il percorso viene descritto più o meno con la seguente dovizia di particolari: “salite per un po’, incontrato un cespuglio di genzianelle girate a destra e percorrete fiduciosi un tratto erboso che senza dubbio vi condurrà alla meta della vostra passeggiata”.



I Monti della Laga sono uno dei posti più belli del mondo:




I mille verdi, che distruggono la mia vista e quella dell’amico Ioao Paulus dall’ingresso del Parco Nazionale fino a quando stramazziamo sfiniti sul versante opposto alla “Costa delle troie”, sono granate di gioia; un po’ perché perdersi nell’ombra del bosco dai grandissimi alberi è piacevole, un po’ per il sole che brucia nei tratti scoperti, il nostro passo, il mio passo, non è particolarmente deciso; avanzo tra cortecce e foglie placidamente, tentando di neutralizzare ogni tentativo di strappo e cambio di ritmo imposto dello smanioso amico che cammina e sbuffa al mio fianco. Ma quando un boato d’acqua scrosciante arriva alle nostre orecchie e la Valle delle Cento Fonti si apre selvaggia alla vista ci muoviamo rapidi ed eccitati verso il bordo del torrente; qualche secondo di silenzio sembra essere l’unico degno modo per godersi lo spettacolo:





Mi risveglio dal torpore in cui ero sprofondato e realizzo che è arrivato purtroppo il momento di camminare in salita; risaliamo il corso d’acqua per una ventina di minuti fino a quando anche l’ultima goccia sparisce in una fessura rocciosa: siamo a 1.700 metri e un enorme valle gialla e verde ci osserva dall’alto, con un ghigno sinistro dipinto sulle rocce. Raccogliamo la sfida e iniziamo l’ascesa alla cresta dell’enorme anfiteatro, mentre il sole picchia forte e la mancanza di qualsiasi traccia o segnale favorisce la bestemmia; dopo un centinaio di sudati metri urge una scelta sulla direzione da prendere, decidiamo di girare a sinistra fidandoci del nostro infallibile senso dell’orientamento e, pieni di felicità, andiamo ad arenarci sul mortale e sterile lato sinistro del costone, che a nulla conduce. Comunque si procede, mentre sono invaso dal terrore per la mia incolumità: è chiaro che il mio compagno mi ucciderà se a breve non vedremo qualcosa di simile a un picco, gobba o sommità del Gorzano; temporeggio, sperando subdolamente in un suo crollo psico-fisico, e cerco di convincerlo che non sempre la vista più bella è quella che si osserva dalla cima, e che in fondo il tentativo e la rinuncia sono esperienze più nobili dell’effimera conquista. Quando schivo il suo sputo sono le due del pomeriggio, siamo a quota 2.000 metri, e il prosciutto, lo stracchino e la rucola appaiono gli unici possibili luoghi d’incontro tra le nostre distanti anime.                             

Adagiati sulla calda terra ci godiamo il vento, il sole e la stanchezza e soprattutto l’inaspettato dono dei dieci minuti di sonno più belli della mia vita. Una sigaretta al risveglio e via di corsa alla macchina, che fiumi di birra e piacevoli chiacchiere ci attendono impazienti, mentre un ultimo saluto va alla misteriosa e mai vista vetta del Monte Gorzano.

martedì 15 maggio 2012

E ancora ¡No pasarán!


Voli militari sul Gran Sasso: scatta la protesta  Danni ambientali e rischio valanghe, Mountain Wilderness dice basta agli elicotteri dell'Esercito sull'area protetta. E scrive al Ministro.
TERAMO – Elicotteri militari che volteggiano sulle nostre montagne, uno “spettacolo” che non piace al Mountain Wilderness, movimento ambientalista, che lancia l'allarme su quelli che sono i rischi ambientali provocati dai voli ed annuncia: “Scriveremo al Ministro”.
“Ancora una volta siamo costretti a registrare come Il Gran Sasso d’Italia sia trasformato in una location per giochi di guerra. Non è la prima volta che le associazioni sono costrette a denunciare il volo di elicotteri da guerra sopra il Corno Grande e Campo Imperatore, voli che coinvolgono anche le vette del Monte Camicia e del Monte Prena”, recita una nota del movimento che spiega come per questi voli spesso l'Esercito non richieda alcuna autorizzazione, accampando la “scusa della segretezza di azioni militari”.
I rischi per il territorio, sia per la flora che per la fauna ma anche relativamente al rischio valanghe, sono numerosi secondo il movimento che vuol mettere fine a queste operazioni. “Non è più tollerabile - spiega Massimo Fraticelli del Direttivo Nazionale di Moutain Wilderness Italia - i danni ambientali  dei voli degli elicotteri dell’esercito sono  molto gravi:  provocano danni  alla fauna selvatica. I camosci, che spesso si trovano su tali versanti, sono costretti a spostarsi in altri luoghi in velocità correndo di roccia in roccia, talvolta dovendo far correre i loro piccoli. I voli di elicotteri, così come l’esercito li attua, in certe condizioni meteorologiche, possono provocare - prsegue Fraticelli - anche il distacco di valanghe, sopratutto in questo periodo, con le brutte conseguenze che scialpinisti potrebbero trovarsi a vivere. Inoltre il rumore rompe il silenzio, disturba chi vive la montagna cercando di apprezzare i suoi necessari silenzi, la quiete che porta l’ascolto dei mille versi di animali, per non considerare i continui disturbi agli alpinisti impegnati in salite e vie di arrampicata anche di notevoli difficoltà”.
L’associazione  Mountain Wilderness Italia intende sollecitare dalle autorità competenti una soluzione definitiva al problema. “Chiederemo al Ministro dell’Ambiente di affrontare il problema delle esercitazioni militari all’interno di aree protette, in Abruzzo come altrove - afferma il Presidente Nazionale Carlo Alberto Pinelli – Invieremo una lettera specifica al Ministro e chiederemo ai parlamentari abruzzesi di sottoscriverla. Contemporaneamente inoltreremo un nota informativa al Commissario Europeo per l’ambiente visto che ci troviamo in Siti di Interessi Comunitari ed è messa in pericolo la popolazione di Camoscio d’Abruzzo,  per la tutela della quale l’Unione Europea spende molti soldi”.
"I montanari del Gran Sasso d'Italia, unitamente agli alpinisti, hanno scritto negli ultimi quaranta anni pagine civili contro l'assalto del cemento alla montagna più grande dell'Appennino scegliendo l'alternativa della conservazione della memoria storica dei luoghi e la tutela delle voci e dei suoni della natura - afferma Mario Viola responsabile Mountain Widerness Abruzzo - Il danno psicologico provocato ai camosci, ai fringuelli alpini e alle aquile reali è molto elevato. Venti anni fa è ritornato il camoscio sul Gran Sasso per vivere i suoi ritmi e le sue avventure. E' ora che gli elicotteri si ritirino dalle vette e dagli altopiani del Parco prima che la pazienza dei montanari, degli alpinisti e degli escursionisti si trasformi in protesta civile permanente."
“La nostra associazione – chiosa la nota - ha fatto della battaglia al disturbo da elicotteri in montagna una propria caratteristica; è notizia di questi mesi come MW Italia sia riuscita a frenare il ricorso alla pratica del’Elisky sulle Dolomiti, a maggior ragione dobbiamo fermare i voli dell’Esercito”.

mercoledì 2 maggio 2012

Una nuova anima


In realtà, quando ricevete una spinta assai forte, quando precipitate (o credete di precipitare) in una voragine, quando il dolore di mutamenti, o metamorfosi e apprendimenti, si abbatte sul vostro capo come falda di montagna oscura, voi per alcun tempo giacete nello stordimento, come morti.
Ma poi da tale morte, ecco liberarsi sottile una nuova anima. Spesso è più lieve di una farfalla, ed erra intorno alla prima.
Così io, dopo aver visto D'Orgaz e il suo cuore di tenebra e il riso crudele del suo amore per Robin, me ne rimasi vario tempo senza vita, o tale apparentemente. Ma la mia nuova anima viveva, e già si aggirava su quanto resta del breve passato, già saliva oltre i giovani D'Orgaz, tornando fedele a sue onde e princìpi.    

Anna Maria Ortese – Il porto di Toledo
    

martedì 3 aprile 2012

I fantasmi di Pizzo Deta.

Se mai nella vostra vita dovesse capitarvi di attraversare l’incantevole Valle Roveto, che da Avezzano si spinge fino a Sora attraverso i Monti Ernici e Simbruini, tenete sempre a mente questo prezioso consiglio: non nominate la montagna di Pizzo Deta. In questi marsicani generosi, allegri e chiacchieroni, che in poche ore demoliscono tutti i miei blandi pregiudizi sugli abruzzesi, evocare il Pizzo significa più o meno produrre lo stesso effetto che deve avere su Angela Merkel l’idea di un Fondo salva-Stati per arginare la crisi. Quando  con Giorgio e Michele esponiamo loro il progetto di avvicinarci alla vetta l’indomani, otteniamo  risposte unanimi, accompagnate da volti che subito si fanno cupi e tirati: morte, slavine, zecche e malasorte in generale. I dubbi in noi prodotti da questo contagioso ottimismo valligiano vengono fugati dalla bellissima luce che il giorno successivo illumina i nostri letti, e ci permette di osservare la montagna in tutto il suo splendore:


Più o meno alle otto di un mattino che sembra essere propizio ci lasciamo alle spalle il paese di Rendinara ed avanziamo su una sterrata ombrosa; una serie di tornanti, qualche bestemmia per la tracheite che affratella il gruppo e molta allegria ci conducono a quota 1.340 metri. In prossimità di un rifugio si apre lo splendido spettacolo del vallone del Rio, infiammato dal sole e solcato da rumorosi rigagnoli d‘acqua: osserviamo qualche chiazza solitaria di neve certi che si tratti di un fenomeno isolato, e un po’ consultando le “sacre carte”, un po’ seguendo le tracce di quattro escursionisti “dilettanti”, proseguiamo l’avvicinamento al Pizzo. Usciamo dalla bella gola protetti dal Monte del Passeggio che troneggia alla nostra destra e rapidamente abbiamo modo di constatare che la strada che ci aspetta è assolutamente sgombra dalla neve:




Per circa un’ora avanziamo ostinati, spesso affondando nel manto bianco che brilla in ogni suo punto e quasi acceca, consapevoli di non avere più alcuna speranza di sederci sulla vetta del monte; l’unica disperata motivazione che riusciamo a trovare per andare avanti è la consapevolezza che ogni metro guadagnato offre alla vista uno spettacolo migliore del precedente. A quota 1.800 una calda e comoda roccia invita a fare il punto della situazione: sputo le mie tonsille e penso a quel residuo di giovinezza che se ne è andato per sempre, i pantaloni di Michele presentano preoccupanti squarci che non avevo notato alla partenza e l’unica cosa che si para davanti a noi è una parete da scalare. Mentre in me si fa largo il pensiero di interrompere questa stancante via crucis e Michele si adagia arrendevole sul masso per dedicarsi all’abbronzatura, le spalle di Giorgio ci sfidano apertamente: avanzano verso il cielo, io rivedo davanti ai miei occhi lo scatto di Pantani sul Mortirolo e mi lancio all’inseguimento per non essere tagliato fuori dalla leggenda. Ad una manciata di metri dalla Sella del Brecciaro ho le idee molto chiare: intimo a Giorgio di aspettarmi e non appena l’ho raggiunto lo invito ad andarsene per seguirne l’esempio; dietro di noi sopraggiungono decisi Michele e il suo moto d’orgoglio. Sono le undici in punto quando i nostri occhi rendono il dovuto omaggio alla bellezza di Pizzo Deta:



Questa passeggiata è dedicata a Nonna Consilia, a cui avremmo dovuto portare un fiore, e a suo nipote Mattia che tanto l’ha amata.                              
                         


venerdì 30 marzo 2012

Sono buono o cattivo, io?


Il dubbio: ero io buono o cattivo? Il ricordo, provocato improvvisamente dal dubbio che non era nuovo: mi vedevo bambino e vestito (ne sono certo) tuttavia in gonne corte, quando alzavo la mia faccia per domandare a mia madre sorridente: “Sono buono o cattivo, io?”. Allora il dubbio doveva essere ispirato al bimbo dai tanti che l’avevano detto buono e dai tanti altri che, scherzando, l’avevano qualificato cattivo. Non era affatto da meravigliarsi che il bimbo fosse stato imbarazzato da quel dilemma. Oh incomparabile originalità della vita. Era meraviglioso che il dubbio ch’essa aveva già inflitto al bimbo in forma tanto puerile, non fosse stato sciolto dall’adulto quando aveva già varcata la metà della sua vita.
Italo Svevo - La coscienza di Zeno

mercoledì 28 marzo 2012

Morii per la Bellezza - ma appena



Morii per la Bellezza - ma appena
mi ebbero composta nella Tomba
qualcuno morto per la Verità
venne adagiato nella stanza attigua –

Domandò sottovoce “Perché caduta?”
Spiegai: “Per la bellezza” –
“Io – per la Verità –  sono una cosa sola –
Siamo fratelli”, disse –

Come congiunti, raccolti dalla Notte –
discorremmo da una stanza all’altra –
finché il muschio ci fu sopra le labbra –
ed ebbe ricoperto – i nostri nomi.



1862.             
                                                        
Emily Dickinson

venerdì 16 marzo 2012

Le montagne di Donostia.




Ma viaggi da solo? Veramente no, la mia borsa è piena di preziosi accompagnatori. Sono nella sala d’aspetto dell’aeroporto di Ciampino quando abbandono con un po’ di tristezza Valerio Lucarelli e le tremende storie dei Nuclei armati proletari, ma già sull’aereo mi sento rinfrancato dalla conoscenza di Emily Dickinson, suo fratello Edward e la piccola grande Vinnie.  A Bilbao passeggio con Gogol' sulla Prospettiva Nevskij, mentre a Donostia m’affliggo per Il cappotto di Akakij Akakievic e per tutto il viaggio i dubbi di Konstantin Levin saranno i miei.
Euskal Herria è verdissima come la croce della sua bandiera, piena di montagne e mimose in fiore, e l’ora di viaggio che separa Bilbao da Donostia la passo più o meno come un adolescente che limona alla festa delle medie. Quasi non avrei voglia di imboccare l’educato traffico cittadino ma faccio finta di sentire l’irresistibile richiamo dell’oceano, che vedo in tutto il suo splendore dalla collina più alta della città; il quartiere dei ricchi, così viene chiamata l’altura, è infatti l’unico posto dove è possibile parcheggiare l’auto senza accendere un mutuo. In albergo conosco Javi, un basco di due metri, e uno sguardo tra noi è quanto basta per capire la direzione da prendere. Sul Monte Urgull la sua mano trema forte quando mi parla dei Gal, gli squadroni della morte messi in campo contro ETA da Felipe Gonzalez e specializzati in omicidi politici. Faccio domande stupide chiedendo numeri o racconti di esperienze dirette, parliamo del Moro, di Jon Anza, torturato e ucciso appena un paio d’anni fa; la guerra era sentita da tutto il popolo mi dice, ora resta il dolore, la richiesta di giustizia e la rabbia. Del mio paese vuole conoscere ogni dettaglio sul Vaticano, il Papa e i preti. Davanti al merluzzo fritto e al vino bianco di Playa de La Concha ritroviamo il sorriso, che diventa comicità quando scatto questa “patetica” foto da turista:




Javi è una macchina da guerra, vuole farmi mordere tutta Donostia in un paio d’ore: rimbalziamo dalla Zurriola al Monte Igueldo, dal porto al Puente de Santa Catalina, fino a quando stremati ripariamo nella città vecchia. Passeggiamo nelle stradine ombrose osservando con un po’ di cupezza la movida del pomeriggio, fiumi di vino che eccitano questi bei volti (No Giovanardi), transitiamo per le taverne e i bar antagonisti di Calle de Bilbao fino ad arrivare alle mura de la Iglesia de San Vicente, dove ci riposiamo osservando una mostra fotografica sul movimento anti nucleare nel Paese Basco e nella Navarra. Non è una storia poi così allegra:


 Nel tardo pomeriggio ci salutiamo “encantadi”, con un po’ di rammarico per non poterci spingere fino alla campagna circostante, e mentre lo vedo andar via rido di gusto: durante il nostro vagare la mia guida è passata alla larga da tutte le chiese della città. La sera torno nella parte vecchia, a ristorante per darmi un tono pretendo un menù in Euskara: lo sguardo della cameriera che mi osserva da lontano è implacabile, sta contando i secondi che passeranno prima che ne chieda un altro scritto in una lingua per me decifrabile. Per fortuna il simpatico madrileno con cui ceno mi suggerisce le preziosissime righe da indicare per godermi una sopa de pescado e delle mejillón con picada de cebolla, consentendomi di mangiare magnificamente e di non essere spernacchiato dall’intero locale. Per le strade e nei pub si canta, si balla e ci si bacia e le grida mi accompagnano fino al desiderato letto.

Domenica mattina il cielo di Donostia è nero e a pochissimi centimetri dalla mia testa. Recupero la macchina ferma da un giorno: la tappezzeria è completamente impregnata di oceano, delizioso odore che mi accompagnerà per un tratto del mio ritorno a Santander. Attraverso un Paese Basco scuro e cupo, ma ancora più bello. Sto per commuovermi, ma poi scoppio a ridere di nuovo, pensando a Javi e alla fatica che deve aver fatto per non farmi vedere questo cartello a pochi metri dall’albergo:

martedì 13 marzo 2012

Le montagne di Bilbao.


“L’Europa unita l’ha fatta la Ryanair, non Jean Monnet o i Trattati di Roma” diceva Giuliano Amato in un’intervista radiofonica.  Alla formazione della mia prospettiva europea molto poco hanno invece contribuito Marina Toya e Elisabetta Rosati, oscure professoresse d’inglese negli anni della scuola, e tantomeno il 6° livello del corso Berlitz che sbandiero con i colleghi dell’ufficio. A testimoniarlo impietosamente ci sono le sei mail e un paio di telefonate scambiate con la cortese MariCarmen della pensione “Anorga” di Donostia per prenotare una stanza. Quando venerdì 9 marzo alle ore 15:00 atterro a Santander, controllo per sicurezza il mio biglietto aereo: allontanandomi dall’aeroporto ho la netta sensazione di essere finito in un sobborgo di Tegucigalpa, Honduras, nell’ora della polverosa siesta. In realtà la Cantabria, la regione che attraverso a bordo di una Skoda Fabia discreta quanto una giacca di Nino Frassica, produce in me la miglior disposizione d’animo: a sinistra ho il mare, a destra verdi montagne e Parchi naturali e i tossici che tentano di molestarmi al primo autogrill si accontentano di un ruvido “No hablo espanol”. Quando però dopo settanta chilometri il cartello mi informa che sono entrato nel País Vasco e il Golfo di Biscaglia si apre imponente alla vista, una forte gioia inizia a farsi sentire. L’emozione è tale che non mi faccio mancare un paio di giri consecutivi del raccordo autostradale che avvolge (si fa per dire) Bilbao e il vano tentativo di pagare il pedaggio con il badge aziendale.  L’inorridita casellante che viene in mio soccorso riesce perfino ad indicarmi la strada per il centro cittadino.

 Il primo impatto con il capoluogo di Bizkaia è un condensato delle peggiori "banalità da esplorazione": la gente mi appare tremendamente ben disposta e sorridente, in un'empatia fatta di sguardi e poche parole; tutti indossano bellissime scarpe da montagna ed emettono suoni deliziosi, l’acqua del Nervión deve essere sicuramente chiara e pura come quella di un torrente alpino e perfino la polizia non sembra poi così cattiva. Mi riporta alla realtà il portiere dell’albergo, con la richiesta di un duplice supplemento non previsto per la colazione e il parcheggio dell’auto. Comunque inebriato (doppia Cruzcampo e un diavolo di bocadillo) mi lancio per le vie di Bilbao come se la conoscessi da sempre: vago piacevolmente, mi fermo e osservo, riparto e seguo il fiume e alla fine di una strada intravedo la prima delle mie mete: il Guggenheim Museum.



Con pudore mi introduco nelle sue enormi stanze e mi faccio guidare da chi ha scelto per me: con Constantin Brâncuşi, scultore romeno dalla faccia che mi conquista, ci capiamo subito; godo dei suoi ritratti, degli abbracci tra innamorati e dei tagli impressi su pietra e legno. Con Richard Serra di San Francisco le cose non vanno altrettanto bene, e nonostante provi e riprovi a smarrirmi nei corridoi delle sue lastre di acciaio, finisco per annoiarmi. Jeff Wall e la sua “A hunting scene”, una foto di tre metri retro illuminata a mo di diapositiva, mi portano con due nativi indiani (credo) armati nella periferia di Vancouver, mentre è un pizzico di sciovinismo a farmi esplorare la rappresentanza italiana: Pistoletto e gli specchi, Enzo Cucchi e la gomma. Osservo ammirato gli scatti della Lipsia anni settanta, le foreste canadesi e il sottoproletariato di Manchester. Alla fine arrivo a una serie di trascurabili immagini che riproducono i momenti storici più importanti del 900; decido di non lasciare il museo fino a che non avrò individuato tutti i protagonisti: sarebbe quasi un percorso netto con Lenin, Hitler e Gorbaciov, Churchill con Roosevelt e Stalin a Yalta e uno stanco Ben-Gurion, se non fosse per l’ultima foto. Chiedo l’aiuto da casa rivolgendomi a una spaventata guida e lascio il museo: in fondo in fondo, mi dico, De Gaulle era solo uno sporco fascista.  
          
        

Edward Steichen, Portrait de Constantin Brâncuşi

Quando alle 21:00 addento melanzana e gambero del primo Pintxos della mia vita il cerchio sembrerebbe chiudersi. Eppure c’è qualcosa che ronza nella testa, provo senza successo a far chiarezza con il secondo Pintxos salsiccia e peperone, ma è solo quando la birra incontra il salmone del terzo stuzzichino che tutto mi appare chiaro: sono in Euskal Herria da quasi quattro ore e non ho ancora visto un’ikurriña. L’idea di questo viaggio nasce soprattutto per omaggiare e incontrare un popolo speciale che ho imparato a conoscere attraverso libri, foto e film. Nel corso degli anni mi sono appassionato alla tenacia e alla determinazione con cui questa gente ha combattuto la violenza del franchismo e del centralismo di Madrid, a volte in silenzio, a volte più rumorosamente. Le immagini dell’arroganza con cui la polizia chiuse le sedi di Batasuna nel 2002 sono ancore fresche nella mia memoria, mentre guardo questi anziani esiliati dai loro locali parlare agli angoli delle strade. Cerco, senza successo, tracce di questa storia. Torno in albergo dove mi consolo con un bagno caldo e uno speciale in Euskara su Vogliamo vivere! di Lubitsch.

Alle 23:00 ceno allegro alla Sidrería Asador Arriaga (http://www.asadorarriaga.com/), interrogandomi sulla drammatica e devastante diffusione del Sidro che sto riscontrando a Bilbao (per non tacer di video poker e canali TV dedicati alla cartomanzia). Marisol, donna simpatica e forte che qui lavora, si prende cura di me, consigliandomi piatti e bevande e intrattenendomi a lungo sulle proprietà dei pimento con cui è stato condito il mio baccalà. Quando però le chiedo di ETA si rabbuia, avverto fastidio e sofferenza, e le uniche parole che escono dalla sua bocca sono più o meno queste: “Oggi abbiamo benessere e turismo, siamo la locomotiva della Spagna, indietro non si torna”. La saluto triste, mentre una sigaretta e una vodka mi fanno compagnia per un’ultima esplorazione di Casco Viejo. Ma con la mente sono già alle Ikurriñe di Donostia. 

sabato 18 febbraio 2012

Làska



Kira al Monte Terminillo


Entrata di corsa nella palude, immediatamente, fra gli odori a lei noti delle radici, delle erbe palustri, della ruggine, e il lezzo estraneo dello sterco dei cavalli, Làska sentì l’odore, sparso per tutto quel luogo, della selvaggina, l’odore che più di tutti gli altri, l’agitava. Qua e là, per il muschio e le bardane palustri quest’odore era assai forte, ma non si poteva stabilire in quale direzione si rafforzasse oppure si indebolisse. Per trovare la direzione bisognava andare più lontano, sottovento. Senza sentire il movimento delle proprie zampe, con un galoppo teso, tale che a ogni balzo avrebbe potuto fermarsi se si fosse presentata la necessità, Làska corse a destra, lontano dal venticello antelucano  che soffiava da oriente, e si voltò verso il vento. Aspirata l’aria con le narici dilatate, sentì subito che non soltanto le tracce, ma loro erano lì, davanti a lei, e non una, bensì molte. Làska diminuì la velocità della corsa. Loro erano lì, ma dove esattamente lei non lo sapeva ancora con precisione. Per trovare proprio il posto, aveva già cominciato un giro, quando a un tratto la voce del padrone la distrasse. “Làska! Qui!” disse il padrone, indicandole l’altra parte. Lei stette un po’ ferma, domandandogli se non fosse meglio fare come lei aveva cominciato. Ma lui ribadì l’ordine con una voce arrabbiata, indicando un gruppo di rialzi nel terreno semisommersi dall’acqua, dove non poteva esserci nulla. Lei gli obbedì, fingendo di cercare per fargli piacere, si trascinò per tutto l’ammasso di monticelli e ritornò al posto di prima ed ecco che subito li sentì nuovamente. Adesso che lui non la disturbava, sapeva che cosa fare, e senza guardarsi sotto le zampe cominciò un giro che doveva rivelarle il punto preciso. Il loro odore la colpiva sempre più forte, più forte e più netto e, a un tratto, fu certa che una di loro era lì, dietro quel monticello, cinque passai davanti a lei; si fermò e si irrigidì con tutto il corpo. Con le sue zampe corte non poteva veder nulla davanti a sé, ma sapeva dall’odore che “essa” era posata lì, a non più di cinque passi. E continuava a star ferma, sentendola sempre più e godendo dell’aspettativa. La sua coda tesa era allungata e tremava soltanto proprio sulla punta. La sua bocca era leggermente aperta, le orecchie sollevate. Un’orecchia le si era rovesciata già durante la corsa, e lei respirava in modo pesante ma cauto, e ancor più cautamente si voltò più con gli occhi che con la testa verso il padrone. Lui, con la faccia alla quale era abituata, ma sempre con gli occhi terribili, camminava inciampando per i monticelli in modo che a lei sembrasse straordinariamente lento. Le sembrava che lui camminasse lentamente, invece correva.
“Cerca, cerca” gridò Lèvin spingendo Làska nelle terga.
“Ma io non posso andare” pensava Làska. “Dove vado?Di qui le sento ma se mi muovo in avanti, non capirò più niente, né dove sono né cosa sono. ”
Ma ecco che lui la spinse con un ginocchio e con un bisbiglio agitato proferì:  “Cerca, Làska, cerca”.
“Ebbene, se lui lo vuole, lo farò, ma ormai non rispondo  più di me,” pensò lei e si lanciò in avanti fra i monticelli a gambe levate. Adesso ormai non fiutava più nulla e vedeva e sentiva soltanto, senza rendersi conto di nulla.
Lev Tolstoj – Anna Karenina

mercoledì 8 febbraio 2012

Imparerai.


(…)potrai andare molto più lontano di quello che avresti pensato quando credevi di non farcela.
William Shakespeare

venerdì 27 gennaio 2012

Evviva i veri turisti della montagna.

Un’Alfa nera percorre decisa lo spazio che separa la capitale dei delitti dai Monti del Cicolano:la conduce un ragazzo  dai capelli chiari, “il biondino d’Arcevia”, che lesina la potenza dei cavalli che scalpitano sotto il suo culo; è consapevole che il meglio lo darà sul misto dei tornanti reatini. Al suo fianco “il progressista” legge il giornale e informa gli altri dei tristi eventi che stanno sconvolgendo la loro misera patria. Dietro di loro “Reinhold la guida” ostenta silenziosamente una magnetica calma: è lui che conosce la meta del viaggio e che dispone dei contatti necessari per portare a termine l’operazione nel migliore dei modi.

Sarebbe questa la scena d’apertura di un film su tre giovani romani che negli anni settanta sono diretti ad un Campo Hobbit su un altopiano laziale con il bagagliaio pieno di armi. Ma questo non è un film, questa è la realtà e fa molto più paura (cit. Lucarelli).

Sabato 7 gennaio 2012 Roma è scaldata da un bellissimo sole: la giornata ideale per Alessio, Francesco e il sottoscritto per raggiungere le pendici del Monte Nuria e violarne i misteriosi segreti. Si viaggia in orario quasi perfetto (assolutamente trascurabile il dettaglio che gli amici più cari non abbiano ancora ben chiara l’esatta ubicazione della tua abitazione nonostante un paio d’anni di glorioso domicilio). I minuti  trascorrono piacevolmente mentre si affrontano tipici discorsi scanzonati da gita domenicale: Aldo Moro e la politica d’ancoraggio all’occidente, riforma elettorale più Corte Costituzionale,il ruolo dell’IRI nello sviluppo economico del dopo guerra, la Cassa di risparmio del mezzogiorno e le responsabilità della DC nell’arretratezza del Sud con un focus sull’attualità o meno del blocco agrario descritto da Gramsci nella “Questione meridionale”.   

Tutto sembrerebbe procedere per il meglio se non fosse che dietro una curva ad un paio di chilometri da Piano del Rascino la Grande Mietitrice è in agguato con la sua falce, sotto forma di lastre di ghiaccio spesse un paio di metri. La faccia dell’automobilista che transita accanto a noi in direzione opposta con vettura dotata di catene da neve in oro massiccio non lascia spazio ad alcuna interpretazione : “so cazzi vostra”. In un grottesco mix di abilità e fortuna riusciamo a mettere in salvo la preziosa berlina nei pressi di un fontanile. Ed è qui che inaspettatamente avviene l’incontro più proficuo della giornata: Davidone è un giovane del posto educato e generoso, gestisce con successo una ditta di manutenzione di impianti termici (nel suo portfolio anche alcuni prestigiosi condomini della Balduina) e soprattutto dispone di GOMME TERMICHE. Nell’attesa che il suo bastardino termini l’accoppiamento con un cinghiale si offre di accompagnarci al Piano. Timidamente accettiamo i suoi servizi: la strada a causa del ghiaccio è particolarmente infame e lo stesso esperto Davide rischia di rigirarsi un paio di volte ;lo invitiamo prudentemente a tornare indietro e solo dopo esserci accertati che tutto proceda al meglio lo salutiamo.

Alle 11:30 ci incamminiamo di buon umore nonostante gli imprevisti in direzione del Nuria passeggiando tra neve e ghiaccio (non ci demoralizza neanche il paragone con l’ARMIR che in scarpe di cartone abbandona il fronte orientale proposto da Francesco) e dopo circa un ora sostiamo sotto gli invisibili ruderi del Castello di Rascino. Appare chiaro a quel punto che il programma iniziale dell’escursione è saltato e dopo un breve giro di consultazioni e dichiarazioni d’intenti realizzo che a saltare è soprattutto la prenotazione del tavolo riservato a mio nome per le 14:30 nel miglior ristorante di Borgorose. Si decide infatti di procedere verso il sovrastante lago del Cornino: con il cuore divorato dall’odio per i 2 stronzi al mio fianco percorriamo l’unico tratto ascendente dell’escursione. In circa quaranta minuti raggiungiamo il laghetto completamente ghiacciato di fronte al quale consumiamo il nostro fantasmagorico rancio offerto (con amore) da Francesco: un pezzo di pizza bianca sfornato nell’Italia pre-unitaria e 2 barrette kinder.

Inebriati da tale esperienza gustativa (immancabile il solito Gatorade al pompelmo rosa anche noto come il killer principe della salivazione) ci incamminiamo sulla via del ritorno: il sole calante permette comunque di renderci conto che siamo gli unici organismi viventi in un raggio di almeno dieci chilometri quadrati, regalandoci una benefica sensazione d’inquietudine. Acceleriamo il passo e raggiungiamo alle 14:30 il versante opposto dell’altopiano mentre angoscianti le prime ombre delle montagne ci avvolgono. Un'altra ora di cammino e un passaggio finale offertoci da un fuoristrada (che non fa che acuire la nostalgia per Davidone e le sue gomme termiche) ci permette di ricongiungerci con l’amata macchina. E’ allora che un grido inaspettato si leva da un bracciante locale e squarcia la silenziosa valle:”evviva i veri turisti della montagna”.

Spiedino  e la sua birra ci stringono in un gelido abbraccio prima di riconsegnarci alle luci della città.

giovedì 26 gennaio 2012

A presto amore mio. La travagliata vicenda sentimentale con una montagna.

Le più intense e travolgenti storie d’amore nascono in modi assai strani. Kurt Cobain incontrò casualmente Courtney Love a Chicago mentre lei era giunta in città “per scoparsi Billy Corgan degli Smashing Pumpkins quando aveva ancora i capelli”.Finirono in un hotel, fecero l’amore e concepirono la loro figlia Frances. Gianni Alemanno e Isabella Rauti si conobbero davanti all’ambasciata sovietica a Roma:lei gli chiese da accendere, lui gli passò una molotov. San Francesco d’Assisi invece accolse la diciottenne Santa Chiara che fuggiva dalla casa paterna nella chiesa della Porziuncola: le rasò i capelli, l’avvolse in un saio e insieme viaggiarono per le vie dello spirito.

Il mio cuore ha iniziato a battere forte durante una riunione di lavoro quando una collega parlando di non so quale diavolo di business case disse: ”possiamo aggirare il problema o …. abbatterlo, come volevano fare con il Monte Velino quando dovevano costruire l’autostrada per collegare Roma a Pescara”.

 L’immagine di questa povera montagna presa a cannonate da un manipolo di carri armati guidati da Remo Gasperi si impadronì violentemente dei miei pensieri. Sono ostile a qualsiasi tentativo di addomesticamento dei monti da parte dell’uomo esploratore, escursionista o sportivo;banalmente mi fa incazzare la manomissione della natura a scopo di lucro o anche semplicemente per fini più nobili; ma polverizzare una  mostruosa quantità di roccia lanciata verso il cielo per raccogliere voti mi proiettava in una nuova e mai esplorata dimensione del concetto di odio. Sconvolto corsi a casa a localizzare questa scampata vittima del vilissimo, anche se solo pensato, sopruso e un paio di giorni dopo  osservavo languidamente da Massa d’Albe la mia nuova amata:




Il Velino, come riportato nel sito http://www.montevelinogev.it/degli eroici escursionisti locali è “ un gruppo montuso trivettale, che raggiunge le sue massime elevazioni con il Monte Velino (m. 2.487), Monte Cafornia (m. 2.409) e Monte Sevìce (m. 2.355).E’ visibile nella sua interezza solo da Magliano dei Marsi  per la posizione convessa che assume nel versante Marsicano”.
   

Il primo tentativo che feci di raggiungere la terza cima degli Appennini (segue sua maestà Gran Sasso e la regina Maiella) fu nel dicembre del 2009. Più che di escursione si trattò di un vero e proprio assalto kamikaze: mal equipaggiato, privo d’acqua, tentai il colpo partendo da Massa d’Albe e con comodi 1.600 metri di dislivello da percorre. Il Velino mi respinse vomitevole per tanta audacia e incoscienza nei pressi del Canalino, graziandomi e facendomi sfiorare da un cinghiale che inseguiva un uccello. Tornai a casa a studiare .Compresi che la via corretta per provare ad avvicinarsi era quella della Vallone di Sevìce partendo da Santa Maria in Valle Proclaneta. Provai altre due volte:durante la prima escursione incontrai 2 cervi ma persi un polmone, la seconda mi portò vicino a qualche nuvola e al rifugio Capanna di Sevìce. In tre passeggiate della cima del Velino e della sua buffa croce nessun segno. E così silenziosamente e con pudore si  fece strada in me  l’idea della rinuncia.

Per questa ragione la gita pianificata per domenica 27 novembre è da me genericamente classificata sotto la voce “escursione nel Parco regionale Sirente Velino”. L’aspettativa del fatale incontro è molto forte ma la camuffo sotto una spessa coltre di preoccupazione e pensieri vari. Alle 6:45 mi incammino lungo il sentiero N.3. L’alba benedice i miei passi e il Monte Sevìce:




Nonostante Il tempo sia meraviglioso la giornata non sembra delle più propizie:ho problemi con la borraccia, i lacci delle scarpe, le mutande, la gola e a giudicare dai polmoni e dalla fatica che faccio ad avanzare Dio deve averne qualcuno con me. Dopo circa venti minuti di patemi riesco finalmente a ricompormi e a spezzare il fiato; mente mi godo il piccolo successo un bolide rosso vestito, dalle sembianza umane si avvicina pericolosamente alle chiappe. Precedendo l’esplosione della mia diffidenza un simpatico volontario del G.E.V. mi supera sorridendo e mi informa che sta andando a chiudere il rifugio Capanna di Sevìce e soprattutto che non è intenzionato a dedicarmi un ulteriore secondo della sua scalata/vita. Io lo guardo andare via sognando di essere come lui quando diventerò grande.

Il brevissimo incontro mi mette di buon umore:con ottimo passo esco dal Vallone, costeggio il Monte Rozza, transito di fronte alla Fontana e alle 9:00 in punto sono sulla Selletta dei Cavalli. Prima stramazzo a terra, poi mi godo la vista: versante nord del Sevìce completamente imbiancato alla mia destra, le Tre Sorelle di fronte, la Val di Teve a sinistra; del Velino nessuna traccia. La copiosa neve che copre le pareti delle montagne che osservo sembrerebbe una buona ragione per ritenersi completamente soddisfatti della sgambettata fatta (1.000 metri di ascesa per i miei fan amanti della statistiche alla Rino Tommasi ) e ritornare a Rosciolo. Ma una strana forza mi convince ad arrampicarmi lungo il ghiaccio morbido della cresta che costeggia il circo glaciale di Fossa Cavallo. Mentre penso di essere un cretino osservo salendo la Croce del Sevìce che è di fronte ai miei occhi;faccio qualche passo in avanti, respiro ed effettuando una torsione di 45° vengo investito da un fascio di luce. Dimenticatevi di San Paolo e Damasco, la Vocazione di San Matteo dipinta dal Caravaggio, l’astronave di Guerre Stellari. Il Monte Velino è davanti a me e mi saluta:




Mi genufletto,comincio a pizzicarmi convulsamente le braccia, bevo un goccio di grappa dalla fischietta (che insieme ai precedenti consumi di mandarini, cioccolata, formaggio e gatorade rende la mia bocca qualcosa di molto vicino al reattore di Fukushima)e sopratutto salto. Inizio a costeggiare il Vallone dei Briganti e i suoi grandiosi brecciai diretto verso la Vetta ma è allora che mi rendo conto di essere impresentabile per l’incontro con la mia amata: le gambe mi tremano dalla stanchezza , la respirazione ricorda quella di un carlino con un brutto enfisema polmonare e i  capelli sono terribilmente in disordine. Arrivare  al suo cospetto rantolante e incapace del necessario contegno?E’ allora che si consuma la scena che Sergio Leone avrebbe sempre voluto girare: il silenzio totale rotto da un sasso che rotola,un breve magnetico sguardo d’ intesa su un futuro e generico appuntamento, l’ulteriore conferma, le spalle del sottoscritto che si girano e i piedi che iniziano a muoversi nella direzione opposta della parete rocciosa. A presto amore mio.  

martedì 24 gennaio 2012

In montibus gaudium



(…)Pur c’è chi vive; per le balze impervie
del Velino massiccio
che vide Roma con i Marsi indomiti
scendere a patti e il biondo Svevo in lacrime.

Virginio Emanuele Laurini

lunedì 23 gennaio 2012

¡No pasarán!

Tratto da repubblica.it 




Incendi, bombe, buste con pallottole.
La malavita all'attacco del Circeo 

di ANTONIO CIANCIULLO

Pressioni e minacce contro chi è chiamato alla tutela dei 22 chilometri di costa laziale praticamente intatta. L'abusivismo le prova tutte in attesa delle sanatorie. La difesa di un modello economico che ha al centro i valori della natura che possono essere messi a fruttoUn ordigno incendiario con 8 inneschi davanti alla sede del parco del Circeo. Due pallottole inviate al presidente del parco del Pollino. Migliaia di richieste di sanatoria pendenti nei territori sotto tutela. Villette travestite da serra che spuntano fidando nel prossimo condono. E' dura la vita degli ambientalisti nell'era delle norme edilizie fluttuanti e dei piani casa che suggeriscono allargamenti fino a ieri proibiti. Ed è dura in particolare nelle regioni in cui gli interessi della criminalità organizzata sono in espansione.

"In alcune zone la crescita della tensione è palpabile", spiega Giampiero Sammuri, presidente di Federparchi. "Penso al Cilento, dove Angelo Vassallo, il sindaco che si opponeva alla speculazione edilizia che premeva sul parco, è stato assassinato. Al Pollino delle intimidazioni contro il presidente, che ha ricevuto una busta con due pallottole. Ai roghi usati come arma di pressione. E a molti altri casi in rispettare la legge diventa pericoloso" L'ultimo e più evidente di questi casi è il Circeo, un parco pioniere che rischia di essere travolto dalla pressione di chi vuole mettere le mani su quei 22 chilometri di costa quasi intatta. Nato nel 1933, terzo dopo il Gran Paradiso e il parco d'Abruzzo, il Circeo ha resistito  -  sia pure con qualche fatica  -  all'assalto alla baionetta degli anni Sessanta: ha perso il tratto più settentrionale, divorato dalle case, ma la controffensiva di metà degli anni Settanta gli ha fatto guadagnare tre piccoli laghi nell'entroterra.

E' una storia che si può leggere anche senza un libro. Basta arrampicarsi sul promontorio della maga Circe per ottenere un colpo d'occhio più eloquente di un trattato. Il paesaggio è disegnato con precisione: la sagoma regolare della grande foresta planiziale, 3.500 ettari che costituiscono l'ultimo retaggio delle selve di pianura che coprivano l'Italia; il centro urbano di Sabaudia, un agglomerato senza sbavature; la linea delle dune, che si estende per 22 chilometri, spezzata solo da rarissime costruzioni. E poi, appena lo sguardo esce da questo mondo ordinato, si comprende il significato del termine "area protetta". Nei luoghi non tutelati lo sviluppo degli ultimi decenni non ha concesso quartiere: l'assedio del cemento, dell'asfalto, delle serre balza agli occhi. Il confine tra questi due mondi è netto, un tratto che segue i contorni del parco circoscrivendolo con precisione.

"Da queste parti la storia dell'abusivismo è lunga", racconta Sergio Zerunian, responsabile dell'ufficio territoriale per la biodiversità che la Forestale mantiene a Fogliano, accanto al giardino botanico creato dai Caetani alla fine dell'Ottocento. "Si è cominciato con gli interventi in aree molto delicate, con tracce di storia millenaria, si è andati avanti con la proliferazione dei posti barca e delle villette che alle volte vengono nascoste, durante i lavori, dietro gabbie di granturco o pareti di una finta serra".
E si va avanti ancora oggi con la moltiplicazione dei roghi nelle aree più pregiate del promontorio  -  che come ricorda il direttore del parco del Circeo Giuliano Tallone  -  hanno messo in pericolo anche le case vicine; con la pressione che ha portato a 3.500 domande di condono all'interno del parco; con l'attentato in pieno giorno che ha distrutto i materiali didattici davanti alla sede del parco. Tanto che il presidente della commissione urbanistica del Comune di Sabaudia, Francesco Sanna, parla di "piano preordinato". Chi sono i nemici del parco?

"Il proliferare di incendi e l'attentato vanno letti come un sintomo, un malessere. Un malessere che però è di pochi e nasce da un cambio di prospettiva non accettato", risponde Gaetano Benedetto, il presidente del parco del Circeo. "Proprio perché questo territorio si è salvato vale di più e gli investimenti hanno una redditività maggiore. Ma per passare da un modello usa e getta a un modello di valorizzazione bisogna rispettare le regole. A qualcuno dà fastidio? Noi riteniamo di fare gli interessi di chi vive nel parco arginando il nuovo cemento non previsto dai piani regolatori".

La scommessa  -  continua Benedetto - è costruire un sistema in cui la bellezza crea valore al di là dei vecchi modelli economici: "Il piano casa della Regione Lazio agisce in deroga al piano paesaggistico e blocca la legge salva coste, consentendo di aumentare le cubature. Ma qui non è applicabile perché una legge nazionale di salvaguardia non può essere vanificata da una legge regionale".

Da una parte il tentativo di realizzare un modello economico capace di far fruttare nel lungo periodo le risorse della natura, dall'altra un coagulo di interessi in cui trovano spazio anche i clan. "La malavita organizzata, come dimostrano le inchieste sui Casalesi e sulla 'ndrangheta, ha deciso che questo territorio deve diventare uno dei centri di riciclaggio del denaro sporco", precisa Marco Omizzolo, di Legambiente. "Pressioni di tutti i tipi sono in aumento nel Lazio: molti parchi vivono una fase di asfissia economica voluta,  altri sono commissariati, altri sono coinvolti nelle inchieste sul ciclo illegale dei rifiuti. Anche Ventotene, nell'arcipelago di fronte al Circeo, un'isola con straordinarie potenzialità, da anni è oggetto di speculazioni e di progetti proposti dalle amministrazioni locali che vanno in senso contrario alla tutela sbandierata: l'ultimo è il costosissimo tunnel che dovrebbe devastare l'isola per far più posto alle macchine".

Parliamo di un'area in cui è stato costituito un "vero sistema criminale che Libera, l'associazione antimafia presieduta da don Ciotti, non ha esitato a chiamare la Quinta mafia", aggiunge il deputato Pd Ermete Realacci in un'interrogazione parlamentare in cui si elencano molti episodi di intimidazioni e aggressioni contro funzionari di polizia e dirigenti del Comune di San felice Circeo e di Sabaudia. "Una mafia che ha soprattutto nel ciclo del cemento la sua manifestazione più eclatante. Basti pensare che stando ai dati delle forze dell'ordine nel parco nazionale del Circeo sono 1 milione e 200.000 i metri cubi fuori legge, 2 abusi edili per ogni ettaro. Secondo gli investigatori una parte è imputabile, direttamente o indirettamente, a esponenti della malavita organizzata e a quel sottobosco politico-economico che sta suscitando grande attenzione negli inquirenti".

21 ottobre 2011