venerdì 27 gennaio 2012

Evviva i veri turisti della montagna.

Un’Alfa nera percorre decisa lo spazio che separa la capitale dei delitti dai Monti del Cicolano:la conduce un ragazzo  dai capelli chiari, “il biondino d’Arcevia”, che lesina la potenza dei cavalli che scalpitano sotto il suo culo; è consapevole che il meglio lo darà sul misto dei tornanti reatini. Al suo fianco “il progressista” legge il giornale e informa gli altri dei tristi eventi che stanno sconvolgendo la loro misera patria. Dietro di loro “Reinhold la guida” ostenta silenziosamente una magnetica calma: è lui che conosce la meta del viaggio e che dispone dei contatti necessari per portare a termine l’operazione nel migliore dei modi.

Sarebbe questa la scena d’apertura di un film su tre giovani romani che negli anni settanta sono diretti ad un Campo Hobbit su un altopiano laziale con il bagagliaio pieno di armi. Ma questo non è un film, questa è la realtà e fa molto più paura (cit. Lucarelli).

Sabato 7 gennaio 2012 Roma è scaldata da un bellissimo sole: la giornata ideale per Alessio, Francesco e il sottoscritto per raggiungere le pendici del Monte Nuria e violarne i misteriosi segreti. Si viaggia in orario quasi perfetto (assolutamente trascurabile il dettaglio che gli amici più cari non abbiano ancora ben chiara l’esatta ubicazione della tua abitazione nonostante un paio d’anni di glorioso domicilio). I minuti  trascorrono piacevolmente mentre si affrontano tipici discorsi scanzonati da gita domenicale: Aldo Moro e la politica d’ancoraggio all’occidente, riforma elettorale più Corte Costituzionale,il ruolo dell’IRI nello sviluppo economico del dopo guerra, la Cassa di risparmio del mezzogiorno e le responsabilità della DC nell’arretratezza del Sud con un focus sull’attualità o meno del blocco agrario descritto da Gramsci nella “Questione meridionale”.   

Tutto sembrerebbe procedere per il meglio se non fosse che dietro una curva ad un paio di chilometri da Piano del Rascino la Grande Mietitrice è in agguato con la sua falce, sotto forma di lastre di ghiaccio spesse un paio di metri. La faccia dell’automobilista che transita accanto a noi in direzione opposta con vettura dotata di catene da neve in oro massiccio non lascia spazio ad alcuna interpretazione : “so cazzi vostra”. In un grottesco mix di abilità e fortuna riusciamo a mettere in salvo la preziosa berlina nei pressi di un fontanile. Ed è qui che inaspettatamente avviene l’incontro più proficuo della giornata: Davidone è un giovane del posto educato e generoso, gestisce con successo una ditta di manutenzione di impianti termici (nel suo portfolio anche alcuni prestigiosi condomini della Balduina) e soprattutto dispone di GOMME TERMICHE. Nell’attesa che il suo bastardino termini l’accoppiamento con un cinghiale si offre di accompagnarci al Piano. Timidamente accettiamo i suoi servizi: la strada a causa del ghiaccio è particolarmente infame e lo stesso esperto Davide rischia di rigirarsi un paio di volte ;lo invitiamo prudentemente a tornare indietro e solo dopo esserci accertati che tutto proceda al meglio lo salutiamo.

Alle 11:30 ci incamminiamo di buon umore nonostante gli imprevisti in direzione del Nuria passeggiando tra neve e ghiaccio (non ci demoralizza neanche il paragone con l’ARMIR che in scarpe di cartone abbandona il fronte orientale proposto da Francesco) e dopo circa un ora sostiamo sotto gli invisibili ruderi del Castello di Rascino. Appare chiaro a quel punto che il programma iniziale dell’escursione è saltato e dopo un breve giro di consultazioni e dichiarazioni d’intenti realizzo che a saltare è soprattutto la prenotazione del tavolo riservato a mio nome per le 14:30 nel miglior ristorante di Borgorose. Si decide infatti di procedere verso il sovrastante lago del Cornino: con il cuore divorato dall’odio per i 2 stronzi al mio fianco percorriamo l’unico tratto ascendente dell’escursione. In circa quaranta minuti raggiungiamo il laghetto completamente ghiacciato di fronte al quale consumiamo il nostro fantasmagorico rancio offerto (con amore) da Francesco: un pezzo di pizza bianca sfornato nell’Italia pre-unitaria e 2 barrette kinder.

Inebriati da tale esperienza gustativa (immancabile il solito Gatorade al pompelmo rosa anche noto come il killer principe della salivazione) ci incamminiamo sulla via del ritorno: il sole calante permette comunque di renderci conto che siamo gli unici organismi viventi in un raggio di almeno dieci chilometri quadrati, regalandoci una benefica sensazione d’inquietudine. Acceleriamo il passo e raggiungiamo alle 14:30 il versante opposto dell’altopiano mentre angoscianti le prime ombre delle montagne ci avvolgono. Un'altra ora di cammino e un passaggio finale offertoci da un fuoristrada (che non fa che acuire la nostalgia per Davidone e le sue gomme termiche) ci permette di ricongiungerci con l’amata macchina. E’ allora che un grido inaspettato si leva da un bracciante locale e squarcia la silenziosa valle:”evviva i veri turisti della montagna”.

Spiedino  e la sua birra ci stringono in un gelido abbraccio prima di riconsegnarci alle luci della città.

giovedì 26 gennaio 2012

A presto amore mio. La travagliata vicenda sentimentale con una montagna.

Le più intense e travolgenti storie d’amore nascono in modi assai strani. Kurt Cobain incontrò casualmente Courtney Love a Chicago mentre lei era giunta in città “per scoparsi Billy Corgan degli Smashing Pumpkins quando aveva ancora i capelli”.Finirono in un hotel, fecero l’amore e concepirono la loro figlia Frances. Gianni Alemanno e Isabella Rauti si conobbero davanti all’ambasciata sovietica a Roma:lei gli chiese da accendere, lui gli passò una molotov. San Francesco d’Assisi invece accolse la diciottenne Santa Chiara che fuggiva dalla casa paterna nella chiesa della Porziuncola: le rasò i capelli, l’avvolse in un saio e insieme viaggiarono per le vie dello spirito.

Il mio cuore ha iniziato a battere forte durante una riunione di lavoro quando una collega parlando di non so quale diavolo di business case disse: ”possiamo aggirare il problema o …. abbatterlo, come volevano fare con il Monte Velino quando dovevano costruire l’autostrada per collegare Roma a Pescara”.

 L’immagine di questa povera montagna presa a cannonate da un manipolo di carri armati guidati da Remo Gasperi si impadronì violentemente dei miei pensieri. Sono ostile a qualsiasi tentativo di addomesticamento dei monti da parte dell’uomo esploratore, escursionista o sportivo;banalmente mi fa incazzare la manomissione della natura a scopo di lucro o anche semplicemente per fini più nobili; ma polverizzare una  mostruosa quantità di roccia lanciata verso il cielo per raccogliere voti mi proiettava in una nuova e mai esplorata dimensione del concetto di odio. Sconvolto corsi a casa a localizzare questa scampata vittima del vilissimo, anche se solo pensato, sopruso e un paio di giorni dopo  osservavo languidamente da Massa d’Albe la mia nuova amata:




Il Velino, come riportato nel sito http://www.montevelinogev.it/degli eroici escursionisti locali è “ un gruppo montuso trivettale, che raggiunge le sue massime elevazioni con il Monte Velino (m. 2.487), Monte Cafornia (m. 2.409) e Monte Sevìce (m. 2.355).E’ visibile nella sua interezza solo da Magliano dei Marsi  per la posizione convessa che assume nel versante Marsicano”.
   

Il primo tentativo che feci di raggiungere la terza cima degli Appennini (segue sua maestà Gran Sasso e la regina Maiella) fu nel dicembre del 2009. Più che di escursione si trattò di un vero e proprio assalto kamikaze: mal equipaggiato, privo d’acqua, tentai il colpo partendo da Massa d’Albe e con comodi 1.600 metri di dislivello da percorre. Il Velino mi respinse vomitevole per tanta audacia e incoscienza nei pressi del Canalino, graziandomi e facendomi sfiorare da un cinghiale che inseguiva un uccello. Tornai a casa a studiare .Compresi che la via corretta per provare ad avvicinarsi era quella della Vallone di Sevìce partendo da Santa Maria in Valle Proclaneta. Provai altre due volte:durante la prima escursione incontrai 2 cervi ma persi un polmone, la seconda mi portò vicino a qualche nuvola e al rifugio Capanna di Sevìce. In tre passeggiate della cima del Velino e della sua buffa croce nessun segno. E così silenziosamente e con pudore si  fece strada in me  l’idea della rinuncia.

Per questa ragione la gita pianificata per domenica 27 novembre è da me genericamente classificata sotto la voce “escursione nel Parco regionale Sirente Velino”. L’aspettativa del fatale incontro è molto forte ma la camuffo sotto una spessa coltre di preoccupazione e pensieri vari. Alle 6:45 mi incammino lungo il sentiero N.3. L’alba benedice i miei passi e il Monte Sevìce:




Nonostante Il tempo sia meraviglioso la giornata non sembra delle più propizie:ho problemi con la borraccia, i lacci delle scarpe, le mutande, la gola e a giudicare dai polmoni e dalla fatica che faccio ad avanzare Dio deve averne qualcuno con me. Dopo circa venti minuti di patemi riesco finalmente a ricompormi e a spezzare il fiato; mente mi godo il piccolo successo un bolide rosso vestito, dalle sembianza umane si avvicina pericolosamente alle chiappe. Precedendo l’esplosione della mia diffidenza un simpatico volontario del G.E.V. mi supera sorridendo e mi informa che sta andando a chiudere il rifugio Capanna di Sevìce e soprattutto che non è intenzionato a dedicarmi un ulteriore secondo della sua scalata/vita. Io lo guardo andare via sognando di essere come lui quando diventerò grande.

Il brevissimo incontro mi mette di buon umore:con ottimo passo esco dal Vallone, costeggio il Monte Rozza, transito di fronte alla Fontana e alle 9:00 in punto sono sulla Selletta dei Cavalli. Prima stramazzo a terra, poi mi godo la vista: versante nord del Sevìce completamente imbiancato alla mia destra, le Tre Sorelle di fronte, la Val di Teve a sinistra; del Velino nessuna traccia. La copiosa neve che copre le pareti delle montagne che osservo sembrerebbe una buona ragione per ritenersi completamente soddisfatti della sgambettata fatta (1.000 metri di ascesa per i miei fan amanti della statistiche alla Rino Tommasi ) e ritornare a Rosciolo. Ma una strana forza mi convince ad arrampicarmi lungo il ghiaccio morbido della cresta che costeggia il circo glaciale di Fossa Cavallo. Mentre penso di essere un cretino osservo salendo la Croce del Sevìce che è di fronte ai miei occhi;faccio qualche passo in avanti, respiro ed effettuando una torsione di 45° vengo investito da un fascio di luce. Dimenticatevi di San Paolo e Damasco, la Vocazione di San Matteo dipinta dal Caravaggio, l’astronave di Guerre Stellari. Il Monte Velino è davanti a me e mi saluta:




Mi genufletto,comincio a pizzicarmi convulsamente le braccia, bevo un goccio di grappa dalla fischietta (che insieme ai precedenti consumi di mandarini, cioccolata, formaggio e gatorade rende la mia bocca qualcosa di molto vicino al reattore di Fukushima)e sopratutto salto. Inizio a costeggiare il Vallone dei Briganti e i suoi grandiosi brecciai diretto verso la Vetta ma è allora che mi rendo conto di essere impresentabile per l’incontro con la mia amata: le gambe mi tremano dalla stanchezza , la respirazione ricorda quella di un carlino con un brutto enfisema polmonare e i  capelli sono terribilmente in disordine. Arrivare  al suo cospetto rantolante e incapace del necessario contegno?E’ allora che si consuma la scena che Sergio Leone avrebbe sempre voluto girare: il silenzio totale rotto da un sasso che rotola,un breve magnetico sguardo d’ intesa su un futuro e generico appuntamento, l’ulteriore conferma, le spalle del sottoscritto che si girano e i piedi che iniziano a muoversi nella direzione opposta della parete rocciosa. A presto amore mio.  

martedì 24 gennaio 2012

In montibus gaudium



(…)Pur c’è chi vive; per le balze impervie
del Velino massiccio
che vide Roma con i Marsi indomiti
scendere a patti e il biondo Svevo in lacrime.

Virginio Emanuele Laurini

lunedì 23 gennaio 2012

¡No pasarán!

Tratto da repubblica.it 




Incendi, bombe, buste con pallottole.
La malavita all'attacco del Circeo 

di ANTONIO CIANCIULLO

Pressioni e minacce contro chi è chiamato alla tutela dei 22 chilometri di costa laziale praticamente intatta. L'abusivismo le prova tutte in attesa delle sanatorie. La difesa di un modello economico che ha al centro i valori della natura che possono essere messi a fruttoUn ordigno incendiario con 8 inneschi davanti alla sede del parco del Circeo. Due pallottole inviate al presidente del parco del Pollino. Migliaia di richieste di sanatoria pendenti nei territori sotto tutela. Villette travestite da serra che spuntano fidando nel prossimo condono. E' dura la vita degli ambientalisti nell'era delle norme edilizie fluttuanti e dei piani casa che suggeriscono allargamenti fino a ieri proibiti. Ed è dura in particolare nelle regioni in cui gli interessi della criminalità organizzata sono in espansione.

"In alcune zone la crescita della tensione è palpabile", spiega Giampiero Sammuri, presidente di Federparchi. "Penso al Cilento, dove Angelo Vassallo, il sindaco che si opponeva alla speculazione edilizia che premeva sul parco, è stato assassinato. Al Pollino delle intimidazioni contro il presidente, che ha ricevuto una busta con due pallottole. Ai roghi usati come arma di pressione. E a molti altri casi in rispettare la legge diventa pericoloso" L'ultimo e più evidente di questi casi è il Circeo, un parco pioniere che rischia di essere travolto dalla pressione di chi vuole mettere le mani su quei 22 chilometri di costa quasi intatta. Nato nel 1933, terzo dopo il Gran Paradiso e il parco d'Abruzzo, il Circeo ha resistito  -  sia pure con qualche fatica  -  all'assalto alla baionetta degli anni Sessanta: ha perso il tratto più settentrionale, divorato dalle case, ma la controffensiva di metà degli anni Settanta gli ha fatto guadagnare tre piccoli laghi nell'entroterra.

E' una storia che si può leggere anche senza un libro. Basta arrampicarsi sul promontorio della maga Circe per ottenere un colpo d'occhio più eloquente di un trattato. Il paesaggio è disegnato con precisione: la sagoma regolare della grande foresta planiziale, 3.500 ettari che costituiscono l'ultimo retaggio delle selve di pianura che coprivano l'Italia; il centro urbano di Sabaudia, un agglomerato senza sbavature; la linea delle dune, che si estende per 22 chilometri, spezzata solo da rarissime costruzioni. E poi, appena lo sguardo esce da questo mondo ordinato, si comprende il significato del termine "area protetta". Nei luoghi non tutelati lo sviluppo degli ultimi decenni non ha concesso quartiere: l'assedio del cemento, dell'asfalto, delle serre balza agli occhi. Il confine tra questi due mondi è netto, un tratto che segue i contorni del parco circoscrivendolo con precisione.

"Da queste parti la storia dell'abusivismo è lunga", racconta Sergio Zerunian, responsabile dell'ufficio territoriale per la biodiversità che la Forestale mantiene a Fogliano, accanto al giardino botanico creato dai Caetani alla fine dell'Ottocento. "Si è cominciato con gli interventi in aree molto delicate, con tracce di storia millenaria, si è andati avanti con la proliferazione dei posti barca e delle villette che alle volte vengono nascoste, durante i lavori, dietro gabbie di granturco o pareti di una finta serra".
E si va avanti ancora oggi con la moltiplicazione dei roghi nelle aree più pregiate del promontorio  -  che come ricorda il direttore del parco del Circeo Giuliano Tallone  -  hanno messo in pericolo anche le case vicine; con la pressione che ha portato a 3.500 domande di condono all'interno del parco; con l'attentato in pieno giorno che ha distrutto i materiali didattici davanti alla sede del parco. Tanto che il presidente della commissione urbanistica del Comune di Sabaudia, Francesco Sanna, parla di "piano preordinato". Chi sono i nemici del parco?

"Il proliferare di incendi e l'attentato vanno letti come un sintomo, un malessere. Un malessere che però è di pochi e nasce da un cambio di prospettiva non accettato", risponde Gaetano Benedetto, il presidente del parco del Circeo. "Proprio perché questo territorio si è salvato vale di più e gli investimenti hanno una redditività maggiore. Ma per passare da un modello usa e getta a un modello di valorizzazione bisogna rispettare le regole. A qualcuno dà fastidio? Noi riteniamo di fare gli interessi di chi vive nel parco arginando il nuovo cemento non previsto dai piani regolatori".

La scommessa  -  continua Benedetto - è costruire un sistema in cui la bellezza crea valore al di là dei vecchi modelli economici: "Il piano casa della Regione Lazio agisce in deroga al piano paesaggistico e blocca la legge salva coste, consentendo di aumentare le cubature. Ma qui non è applicabile perché una legge nazionale di salvaguardia non può essere vanificata da una legge regionale".

Da una parte il tentativo di realizzare un modello economico capace di far fruttare nel lungo periodo le risorse della natura, dall'altra un coagulo di interessi in cui trovano spazio anche i clan. "La malavita organizzata, come dimostrano le inchieste sui Casalesi e sulla 'ndrangheta, ha deciso che questo territorio deve diventare uno dei centri di riciclaggio del denaro sporco", precisa Marco Omizzolo, di Legambiente. "Pressioni di tutti i tipi sono in aumento nel Lazio: molti parchi vivono una fase di asfissia economica voluta,  altri sono commissariati, altri sono coinvolti nelle inchieste sul ciclo illegale dei rifiuti. Anche Ventotene, nell'arcipelago di fronte al Circeo, un'isola con straordinarie potenzialità, da anni è oggetto di speculazioni e di progetti proposti dalle amministrazioni locali che vanno in senso contrario alla tutela sbandierata: l'ultimo è il costosissimo tunnel che dovrebbe devastare l'isola per far più posto alle macchine".

Parliamo di un'area in cui è stato costituito un "vero sistema criminale che Libera, l'associazione antimafia presieduta da don Ciotti, non ha esitato a chiamare la Quinta mafia", aggiunge il deputato Pd Ermete Realacci in un'interrogazione parlamentare in cui si elencano molti episodi di intimidazioni e aggressioni contro funzionari di polizia e dirigenti del Comune di San felice Circeo e di Sabaudia. "Una mafia che ha soprattutto nel ciclo del cemento la sua manifestazione più eclatante. Basti pensare che stando ai dati delle forze dell'ordine nel parco nazionale del Circeo sono 1 milione e 200.000 i metri cubi fuori legge, 2 abusi edili per ogni ettaro. Secondo gli investigatori una parte è imputabile, direttamente o indirettamente, a esponenti della malavita organizzata e a quel sottobosco politico-economico che sta suscitando grande attenzione negli inquirenti".

21 ottobre 2011

venerdì 20 gennaio 2012

Monte Catria – Monte Cucco. Sunday bloody Sunday.


Con l’arrivo dell’estate anche “le montagne di roma” decide di varcare gli angusti confini del Grande Raccordo Anulare per scoprire nuovi sentieri e impervie salite. Scartata l’ipotesi di un tour negli 8.000 asiatici (stimolanti ma alla lunga noiosi), escluso il visto e rivisto treeking nell’alto-atlante marocchino,evitati come la peste i “romani con il bastone” (cit. smuggler) che devastano le Alpi decido infine di percorrere la sempre affascinante Via Flaminia.

Arrivo così alle 10 a.m. circa di un fresco 14 agosto 2011 (temperatura media che si attesta intorno ai 46°) in località Valdorbia, una delle pendici umbre del Monte Catria. Prendo un caffè,riempio d’acqua bollente la borraccia e mi incammino.Prima però comunico le ultime disposizioni testamentarie al mio notaio visto l’ambizioso progetto messo in essere: raggiungere prima il Corno e poi la vetta del monte passando per la scopertissima, temutissima, insidiosissima et infamissima Cresta del Catria,meglio conosciuta come la Pearl Harbor dell’escursionismo. Il grado di difficoltà segnalato è EE (comincio comunque a farmi un idea del livello di approssimazione di questa classificazione: si passa dalle scale del mio condomino ai più inespugnabili contrafforti andini) mentre la descrizione dell’itinerario sul sito del parco si limita a raccomandare di “utilizzare massima prudenza e percorrerlo solo in condizioni climatiche ideali: assenza di vento, piogge e soprattutto nebbia e foschia “.Penso alla pioggia, alla nebbia e alla foschia mentre cammino e il sole incendia con perfidia tutto quello di infiammabile che indosso. Passeggio nel bosco cercando l’amica ombra ma la magia dura poco. Gli alberi finiscono e con malinconia osservo a sinistra la mia meta:



Accelero il passo lungo il sentiero N.29 e in pochi minuti raggiungo il bivio per Isola Fossara:qui si gira a sinistra, la salita è faticosa. Il verde si fa sempre più rado e superata una striscia di ginepri iniziano a materializzarsi le milionarie rocce calcaree:è il segnale che mi sto avvinando alla temibile Cresta che raggiungo in 15-20 minuti. Inizialmente passeggiare su questo corridoio di sassi con un abisso di circa 900 metri da entrambi i lati è quasi piacevole:il percorso è discretamente largo, il dislivello inesistente e i passaggi mai impegnativi. Maledico la mia ansia e le mie preoccupazioni mentre inizio a programmare la distruzione del panino al roast beef sulla vetta. Dopo un paio di minuti però chiamo mamma e l’avverto che farò tardi per cena:il corridoio spazioso si trasforma in uno stretto filo sospeso a strapiombo e la posizione eretta si fa rara perché il più delle volte avanzo a quattro zampe. Mi faccio comunque coraggio, supero un paio di punti critici e rinfrancato giungo di fronte a questo simpatico stacco:



Ora osservando questa roccia comodamente seduti di fronte al vostro fiammante Apple mentre consumate un delizioso Cosmopolitan preparato da Michele del bar Palombini immagino possiate pensare che scalarla sia cosa semplice. In loco la questione è più complessa, i dubbi mi assalgono, in un impeto di virilità mi avvento sulla nuda pietra ma a circa metà del passaggio faccio l’enorme cazzata di pensare a come scenderò al ritorno. Mi accuccio un po’ agitato su un sasso spazioso , i volti sorridenti dei miei figli mi schizzano davanti agli occhi, rifletto, e infine mi convinco che il roast beef di mia nonna non si guasta anche se mangiato qualche centinaio di metri più sotto. La sconfitta è consumata, dignitosamente giro le chiappe mentre un’aquila che vola in alto sembra urlarmi “hai fatto bene!!!!!!”.

L’amaro in bocca lasciatomi dalla passeggiata non scalfisce però la mia fame di boschi e montagne. Mi dirigo così verso il vicino Parco del Monte Cucco anche conosciuto come casa mia dove ho intenzione di campeggiare nell’amena località di Val di Ranco. Nonostante la forte affluenza di feccia umana (inizialmente penso alla presenza del Papa, poi rammento che è il 14 agosto)ritrovo luoghi molto amati: il silenzioso Monte Culumeo, l’incantata faggeta sotto il Pian delle Macinare, la pace della Fonte dell’acqua Fredda. Pianto la tenda e decido di andarmi a godere il tramonto al Decollo sud, una piccola pianura da cui si lanciano gli appassionati di deltaplano. Si tratta di un piccolo esercito che invade il Parco nei mesi estivi composto in maggioranza da francesi, tedeschi e olandesi che fino a ieri ignoravo educatamente;una piccola passeggiata nella vicina radura mi fa però scoprire che questi portatori di civiltà nord-europea e possessori di debito pubblico AAA+ non amano la mia montagna: il bosco dove vanno a cagare è un vasto tappeto di fazzoletti e altri rifiuti. Da oggi mi ritengo in guerra con loro e sbraitando mi allontano. L’unico sveglio che sembra capirmi è lui:




Seppellisco l’incazzatura sotto un supremo piatto di passatelli ai funghi e una bistecca di maiale dal buon Tobia (http://www.albergomontecucco.it/) , storico ristoratore di Val di Ranco. L’intenzione sarebbe quella di collassare meritatamente in tenda ma i balli, i fuochi e le chiacchiere dei giovani vicini mi catturano simpaticamente fino alle quattro del mattino.
E’ l’alba quando riparto.


mercoledì 18 gennaio 2012

L’uomo con più denuncie in Italia?Un biologo, entomologo ed ex direttore del Parco nazionale d’Abruzzo.

Se durante una partita a Trivial Pursuit in birreria mi fosse capitata la domanda “Chi ha collezionato più procedimenti a proprio carico da parte della giustizia italiana?” avrei riflettuto qualche minuto. Dopo un sorso di birra sarei velocemente andato a scandagliare con il pensiero nomi e verbali delle inchieste di Tina Anselmi sulla P2,i lavori della commissione Moro o quella su Terrorismo e stragi di stato. Non pago avrei orientato la riflessione su la Tangentopoli di Poggiolini e De Lorenzo, le mazzette del post-terremoto in Irpinia, la mafia che uccise Falcone e Borsellino. Non certo a cuor leggero avrei comunque scartato Leone e i protagonisti dello Scandalo Lockheed, la DC di Gava, il canaro della Magliano, il boia di Albenga o Mamma Ebe. Forse, sfiancato dalla massa di pensieri e immagini, avrei alla fine pronunciato il nome di Luciano Moggi.   
       

A Franco Tassi però non avrei minimamente pensato. Fondamentalmente perché non lo conoscevo ma anche perchè dando un rapido sguardo alla pagina wikipedia http://it.wikipedia.org/wiki/Franco_Tassi non sembrerebbe disporre di quel profilo criminale necessario per raccogliere un incredibile numero di indagini a suo carico nelle procure italiane. Invece “pare” che con quasi 1.500 fascicoli sia proprio l’ex direttore del Parco Nazionale d’Abruzzo l’uomo più denunciato d’Italia.

Mi limito al momento a pubblicare un estratto di un intervista (non è datata) che ho trovato sul sito www.montevelino.it in attesa di approfondire l’argomento. Eventuali contributi per integrare, smentire e soprattutto querelare sono chiaramente ben accetti.

Intervista al dottor Tassi (estratto) fonte comitato parchi


Lei ha superato, durante gli anni dedicati al Parco, e con tutti gli strascichi successivi (vale a dire dal 1969 ad oggi), la quota di ben 1.500 procedimenti soprattutto penali, uscendone sempre scagionato e innocente. Come ha potuto tenere il conto esatto di questa vicenda incredibile, di sapore kafkiano?

«In realtà il conteggio non l’ho intrapreso io: ad iniziare furono alcuni giornalisti della stampa ambientalista negli anni Settanta, allorché mi trovavo appena a quota 300. Poi venne intrapresa una indagine più seria, e negli anni Novanta avevo già toccato quota 800: fu allora che il Corriere della Sera dedicò all’evento un vasto servizio (Sette n. 15, del 10 aprile 1997). Tenere il conto divenne però sempre più difficile, ma nel 2001 confessai pubblicamente d’essere arrivato a quota 1.000. Intanto, nel 1998 la Rivista Abruzzese, scherzandoci sopra, aveva pubblicato un Fascicolo Straordinario (La lunga guerra per il Parco Nazionale d’Abruzzo) con un singolare manifesto, Wanted!, in cui si offriva una congrua taglia per la mia testa. E in effetti, i bounty killers già pullulavano… Fiorirono ricerche, analisi sociopolitiche e tesi di laurea anche all’estero (alcune ancor oggi non concluse), e finalmente questa bella storia italiana assurse all’attenzione teutonica in Baviera, grazie allo studioso Benno Zimmermann, che nell’anno 2004 mi collocava a quota 1.300. Oggi, modestia a parte, ho raggiunto quota 1.500: un livello degno davvero del Guinness dei Primati. E non manca chi prevede che in futuro potrei conquistare persino la vetta dei 2.000».

Pensa davvero che anche adesso, che ha lasciato ormai da quattro anni la Direzione del Parco più famoso, amato e importante, ma anche più difficile d’Italia, questa “storia infinita” continuerà? Non si potrebbe invece chiuderla finalmente, magari pubblicandone il rendiconto?

«Sarebbe molto bello, ma certo non dipende da me, perché vi sono ancora vari procedimenti pendenti, e i tempi della nostra Giustizia sono quelli che tutti conosciamo. Offrire un resoconto finale completo non sarà inoltre possibile, fino a che non avrò recuperato i numerosi fascicoli che mi sono stati sottratti mentre ero ammalato. Per questo, avevamo prodotto nel 2002 due circostanziate denuncie penali, una a Roma e l’altra a Sulmona, ma senza ottenere nulla, almeno per ora. Si dovrà dunque attendere ancora, e forse non poco».

Quali sono le cause di fondo di tutte queste denunce infondate, talvolta ridicole? Possono spiegarsi soltanto con il conflitto, spesso violento, tra chi difende la natura e chi vuole cementificarla? O non vi saranno altre ragioni recondite?

«Domanda esatta, risposta difficile. In realtà sono stato accusato di tutto (dal lancio aereo di lupi siberiani e di vipere in sacchetti, alla caccia riservata al camoscio con la protezione di guardie armate). Il fatto però che nessuno abbia mai preteso seriamente di attribuirmi i reati più diffusi tra chi detiene il potere nel nostro Paese (come corruzione, truffa, peculato e simili) fa già capire di cosa stiamo parlando. Del resto, quello del Direttore del Parco non rappresentava un vero potere, al massimo poteva essere definito un “contropotere”… In un Paese come il nostro – dirò di più, nell’ambiente culturale dei villaggi di montagna del Mezzogiorno – promuovere ricerca e innovazione, attuare strategie di conservazione “rivoluzionaria”come la “zonazione”, pretendere la rigorosa applicazione delle normative ambientali, magari facendo abbattere una trentina di villini abusivi di potenti romani, e puntare sul volontariato e sull’ecoturismo, fin dal principio degli anni Settanta, era come offrirsi da bersaglio fisso per cecchini e per plotoni di esecuzione. Per di più, quegli ambienti “chiusi” erano già stati violentati e in parte corrotti dalla speculazione edilizia. Il fatto di essere “straniero”, vale a dire non “paesano”, aggiungeva un’altra colpa. Ma la vera, profonda ragione è politica, o meglio sta nella assoluta mancanza di una vera “politica” intesa nel senso più nobile. C’è stata sempre soltanto una “partitica” invasiva (simile agli affari di clan o di gruppi ben definiti), che si è occupata soprattutto di affarucci di bassa bottega. Ma sono mancati il patrocinio e la mediazione della vera politica, che doveva fungere da raccordo positivo e virtuoso tra la più lungimirante conservazione della natura e le comunità locali, talvolta miopi e talaltra disinformate e fuorviate. Non è emersa, insomma, alcuna personalità equilibrata, credibile e lungimirante che abbia saputo affermare chiaramente: “State calmi, abruzzesi, chi lotta per salvare l’orso marsicano lo sta facendo anche per voi e per i vostri figli”. Molti hanno invece gridato a pieni polmoni, istigando la caccia all’untore: “Aiutateci a cacciarli!”. Ogni “partitico” incallito odia infatti chiunque non si prostri ai suoi ordini, perché ritiene che costui, soprattutto se mostri capacità e indipendenza, gli sottragga una “quota di dominio” sulla gente e sul territorio».

Ma se andassimo più a fondo, quali gruppi politici (pardon, “partitici”) in questo terzo di secolo l’hanno più ostacolata nella “redenzione” del Parco, sono stati più sleali, hanno perseguito interessi meno cristallini?

«Verrebbe da rispondere quasi di getto “tutti, prima o poi”, ma forse è meglio essere un po’ più analitici. In altre parole, una risposta obiettiva e inconfutabile verrà soprattutto dagli studi in corso in Italia e all’estero (preferirei non essere proprio io, ed io soltanto, a pretendere di offrire risposte apodittiche). Uno di questi studi verte appunto su: “Ruolo dei partiti politici nella conservazione della natura in Italia”. Per chi volesse inquadrare nel modo migliore la storia della “redenzione” del Parco d’Abruzzo, poi, suggerisco la lettura del bel libro di James Sievert “The Origins of Nature Conservation in Italy” (Peter Lang, Berna 2000). Non a caso, reca in copertina una splendida immagine della Camosciara restituita alla natura: un evento davvero storico, celebrato nell’anno 1998. Nel periodo, insomma, della tanto “malfamata” vecchia gestione del Parco».

Diciamo qualcosa di più preciso, adesso, almeno sugli attacchi peggiori, in questa “lunga guerra per il Parco Nazionale d’Abruzzo”.

«Nell’anno 1969, ancor prima di entrare in servizio al Parco, la mia famiglia incominciò ad essere bersagliata da minacce di morte. Anche dopo, aggressioni fisiche a me e ai miei familiari non sono mancate, ma si tratta pur sempre di una infima percentuale, raffrontata alle alluvioni di veleni diffamatori e calunniatori profusi ovunque, e con ogni mezzo. Nelle denunce c’era tutto, dal traffico di droga all’ospitalità ai terroristi, al punto che ben presto subimmo indagini, perquisizioni, irruzioni notturne… Secondo qualcuno, di fronte alle valanghe di accuse così gravi, avrei dovuto dimettermi subito. Ma se l’avessi fatto, il Parco e l’Orso non esisterebbero neppure più… E di conseguenza, forse non sarebbe esplosa neanche la straordinaria fioritura di nuovi Parchi, quella che un Capo dello Stato definì, nel suo messaggio augurale al Paese del 31 dicembre 1988 “la primavera dei Parchi”. Perché il Parco d’Abruzzo, come tutti sanno, finì col diventare quasi una leggenda, molto al di sopra delle realtà e dei meriti effettivi: e venne ben presto preso a modello da tutti gli altri Parchi, non solo in Italia.
Le raffiche degli attacchi, mai interrotte, culminarono in tre fasi distinte, alle quali storici e politologi tendono ad attribuire sigle specifiche: negli anni Ottanta il Susygate, negli anni Novanta il Savyogate, ed infine nel Terzo Millennio il Pratesygate. Esaurite le prime due, la terza risulta ancor oggi in pieno svolgimento. Spesso mi viene chiesto come mai tutta questa acredine e tanto accanimento, e in che modo si possa spiegare una insistenza quasi maniacale. La risposta è semplice: nuovi tentativi si scatenano, là dove i precedenti sono falliti. Perché a quota 1.500 la mia fedina penale è ancora, come è sempre stata, perfettamente integra. Inoltre non vi è dubbio che la marea di fango riversata sul nemico da eliminare s’ingigantisce sempre, in proporzione diretta con la bassezza, il rancore, la gelosia e l’invidia di chi la scatena. E in qualche caso può anche scaturire, nei soggetti falsi, traditori e rinnegati, dal tumulto della coscienza e dal bisogno di cancellare tutto ciò che potrebbe suscitare rimorsi».

Vorrebbe dire allora che l’assalto al Parco si è scatenato come un complotto, un “golpe”, un “blitz” ben visto dai poteri forti e occulti, che hanno impiegato la doppiezza dei falsi amici, e di tutti coloro che avrebbero dovuto difenderla quando era ammalato? Insomma, è proprio vera la voce che circola, e cioè che ai danni del Parco e del suo Direttore sarebbe stata commessa una “porcata”, ovvero quella che oggi viene definita in gergo romanesco “una sozzura”?

«Questo lessico non mi appartiene affatto, e poi non intendo avere la presunzione di risolvere e svelare quello che molti hanno chiamato “il giallo del Parco”. Una risposta sicura verrà, ma forse dovremo ancora attendere. Credo che la verità affiorerà, prima o poi, e qualche sintomo promettente incomincia già a percepirsi. Ma non siamo al finale di un film americano, e non abbiamo un romanziere come John Grisham a raccontarci la conclusione del thriller. La giustizia si sta affermando, ma ovviamente con i ben noti tempi ital-giurassici. Noi, o forse sarebbe meglio dire i nostri figli, siamo sempre qui, in fiduciosa attesa».

Se dovesse concludere, almeno per ora, con una breve frase questa puntata del “giallo”, cosa le verrebbe spontaneo dire?

«Risponderei soltanto con due parole e mezzo: “Grazie Italia”, e “Scusa Italia”. Grazie, per avermi confermato quello che avevo intuito fin dal principio, nelle battaglie in difesa della natura. Una delle mie prime domande di fondo, all’epoca delle durissime lotte contro la speculazione edilizia, condotte insieme a personaggi del calibro di Antonio Cederna, fu infatti: “Ma questo Stato, da che parte sta?”. Scusa, per aver tentato di portarti all’avanguardia nella conservazione della natura, perché ora abbiamo la chiara conferma che i tuoi anticorpi non lo sopportavano, e che una tremenda crisi di rigetto era inevitabile».

Ma queste sono tre parole, e poi la parola Italia viene ripetuta due volte!

«Se è per questo, la parola Italia può anche essere ripetuta e urlata all’infinito, specialmente alle partite e alla televisione, ma è la sostanza che qualche volta manca: perchè non c’è molto rispetto per l’identità del Paese e la dignità della sua gente. Distruggere quello che gli svizzeri chiamano “il volto amato della patria” per un profitto immediato significa rinnegare il proprio Paese, cancellarne una delle parti migliori. In questa situazione l’Italia finisce dimezzata, diventa appannata e si mostra contraffatta. Ancora troppo lontana dal sogno di un’Italia autentica, integra e giusta: quella più vera, che forse un giorno potrebbe risorgere».

Fonte comitato parchi

martedì 17 gennaio 2012

Sul Monte Nuria. La discesa.


In cima al Nuria, a 1.888 metri, si sta comodi. Un po’ di sole benedice l’armonia, io l’aiuto con una merenda da vero gourmet: arance,biscotti secchi e un goccio di Vodka. Intorno a me c’è più o meno questo:



Passeggio, respiro, osservo ogni particolare, succhio la neve che con qualche chiazza resiste ostinata alla primavera. Ci sarebbe la possibilità, con una mezz’ora di camminata sulla cresta, di raggiungere il Colle della Fungara che osserva il Nuria a poca distanza. Ci sarebbe appunto, ma la mia testa è oramai irrimediabilmente popolata da orrendi demoni: bruschette ai funghi porcini mi invitano a seguirle,tagliatelle al sugo che come vere e proprie sirene mi salutano con sguardo malizioso, fiaschi di vino rosso che mi sussurrano “o ci prendi ora o non ci avrai mai più”. Ad occhio e croce deduco che è l’ora di tornare al campo base (la sanguinolenta macchina).

Scendendo dal monte cala in maniera proporzionale anche il livello di tensione psico-fisica relativa alle energie da sforzo aerobico d’alta quota in un setting ambientale climatico medio -buono: in altre parole mi addobbo 3 o 4 volte percorrendo l’amata faggeta, fortunatamente senza ammaccarmi seriamente.

Rispetto alla salita il bosco è più animato: canti, latrati in lontananza, bidoni di vernice arancione che si materializzano dietro tronchi d’albero (giuro). Ripercorro l’itinerario dell’andata felice e  valutando negativamente i l precedente eccesso di severità verso il Lago di Rascino a cui dedico questa defilata foto:



Trotterello verso la macchina lontana che mi appare inarrivabile, chiedendomi come abbia fatto( e soprattutto perché) a frapporre così tanta distanza tra lei e il mio culo. Giunto al bagagliaio opero una veloce toletta più cambio d’abito suscitando gli sguardi allarmati degli indigeni che si chiedono cosa faccia un uomo distrutto in mutande sul Piano. Io comunque non mi scompongo, accendo stereo e sigaretta e sgommo via veloce: direzione Torano dove, tramite una fumosa e vaga telefonata della sera prima, mi dovrebbe essere stato riservato un tavolo presso la prestigiosa “Taverna dei Briganti”.

Percorro in qualche minuto quella ventina di chilometri che mi separano dalle posate. Entro e con occhi da cucciolo di panda improvvisamente scaraventato nel cuore di un incrocio di Mumbai chiedo se qualcuno ha memoria della suddetta conversazione. Mi viene con simpatia (e malcelata compassione) indicato un grazioso tavolino apparecchiato per una persona. Ci sprofondo e assumo lo stesso sguardo soddisfatto che deve aver avuto Anna Nicole Smith (r.i.p.) il giorno delle nozze con il miliardario texano.

Il ristorante che mi ospita, cito dal sito http://www.tavernabriganti.it/, nasce da una intuizione di Stefano Franchi che ha voluto valorizzare e riproporre in chiave moderna le antiche ricette della tradizione culinaria del Cicolano e delle zone limitrofe. Nel locale è stata ricreata l'atmosfera tipica che si respirava un tempo nelle case delle famiglie del Cicolano: semplicità, simpatia e qualità dei cibi rendono unico questo posto.     
Il tutto è perfettamente riuscito. Consumo ciò che mi viene proposto evitando eccessi e ricordando sempre che la moderazione e l’astinenza rappresentano virtù irrinunciabili per l’uomo che tende alla saggezza; in ordine sparso: mezzo litro di Reale alla spina del Birrificio del Borgo (è a pochi passi), affettati, olive, carciofini, coratella, una ricotta dio esiste e vive a Borgorose,mezzo litro di rosso,cotiche coi fagioli, zucchine, salsicce di fegato e non, arrosticini, un litro d’acqua,bistecchine, cicoria, dolce, grappa. Al termine di questo frugale spuntino mi chiedo se sia eticamente corretto ordinare un caffè:ne discuto con un simpatico vicino di tavola il quale conviene che non sarebbe cortese verso il ristoratore non assaggiarne.   
        

Sbrigate le non impegnative formalità di cassa abbraccio tutti i presenti, saluto e me ne  vado non prima di aver ritirato il preziosissimo doggy bag (Michelle Obama non sei nessuno).In un prato limitrofo faccio mangiare anche l’affamata Kira che sembrerebbe aver apprezzato la tradizione del Cicolano:



La gita è finita,si torna a casa a sfogliare l’atlante.         
 

venerdì 13 gennaio 2012

Sul Monte Nuria. La salita.


Da qualche anno ho iniziato a camminare in montagna con una certa costanza e determinazione. Vado quasi sempre da solo anche se recentemente mi accompagna un fedele cane di nome Kira. E’ però da qualche mese appena che ho capito definitivamente che la bellezza e l’intensità delle escursioni non sono in alcun modo collegate all’altezza delle cime da espugnare (quando ci sono). Questa banale e demenziale verità mi è stata svelata dalle esplorazioni dei Monti del Cicolano, dove la mancanza di una vetta cazzuta al di sopra  dei 2.000 metri è però ampiamente ripagata da boschi, fossi e valichi in cui ad ogni momento ci si aspetta di imbattersi in Gandalf e la Compagnia dell’Anello tutta.

Dopo il Cervia e il Navegna con molte aspettative decido quindi, domenica 1 maggio 2011, di puntare senza paura verso il Monte Nuria. Kira e io usciamo di casa alle 6 del mattino. Consueta colazione all’area di servizio "Civita" al Km.54 dell’A24, il mio autogrill preferito: qui è infatti possibile trovare la più merdosa brioche al cioccolato dell’intera rete autostradale italiana e  accompagnarla con un mediocre cappuccino. Per me è però un rito sacro e irrinunciabile: l’ultima sosta nella brutale e fetida società civile condita con una Marlboro rossa, prima dell’immersione nell’incontaminata natura.

 Alle 7 e un quarto sfondo il casello Valle del Salto (l’idea è di raggiungere il Nuria partendo dal Piano di Rascino) e punto verso Rieti:seguo la statale 578 per circa 5 o 6 km fino a Fiamignano, dove si gira a destra e si inizia a salire verso il Piano. Dopo altri 5 o 6 Km (boh) inizia la sterrata (e il contestuale coro di bestemmie per i crateri della stessa che aggrediscono senza pietà i miei ammortizzatori/sospensioni)  che porta al punto di partenza della camminata.

Inizio a nutrire un’avversione importante per i pianori antropizzati: in tutti si avverte il tentativo di monetizzare la bellezza, il successivo fallimento e il conseguente abbandono dei progetti. Anche il Piano di Rascino evoca in me questi cupi pensieri e per protesta snobbo gli omonimi lago e castello (ruderi) e parcheggio la mia macchina dolorante  iniziando l’avventura verso il Nuria.
Si comincia subito a salire su una strada sterrata bruttina, che costeggia qualche isolata abitazione bruttina e dopo una curva  arriva ai piedi di una raduretta, bruttina. Il tempo di attraversarla e ci si riconcilia con il mondo; la felicità avanza nel petto mentre  un ampia mulattiera sterrata costeggia questa meraviglia:




Siamo al Lago di Cornino, 1.306 metri d’altezza e tanta bellezza. La mulattiera avanza decisa e taglia tutto il Piano di Cornino: un’immensa distesa di verde protetta da un involucro di monti invita all’attraversamento; canticchio qualche canzone idiota mentre Kira corre, salta e mi sbava addosso. Rifletto sulla pace di questo posto assicurata dalla lontananza dell’uomo: proprio quando queste parole,l-o-n-t-a-n-a-n-z-a dell’u-o-m-o, si dilatano nella mia testa noto a terra una macchia verde più scura delle altre. Fremo immaginando l’ennesimo spettacolo naturale che sta per palesarsi davanti agli occhi e mi avvicino in fretta pieno di entusiasmo  per osservare lo strano fenomeno: che meraviglia, sono i resti di un enorme e merdoso palloncino della Coldiretti che deve evidentemente essersi sentito profondamente solo in qualche manifestazione a Rieti e ha deciso di venire a morire al Piano di Cornino (che nel frattempo ho attraversato completamente e che saluto fotografando questo bell’albero) .



Il Nuria mi aspetta. Percorro una silenziosa faggeta: il marrone regna,inizia a piovere ma io mi sento protetto dai miei vecchi alberi, Kira pattina sulle foglie e addenta bastoni in continuazione; la salita è così piacevole che solo dopo 40 minuti inizio a chiedermi dove cazzo sono finito. Perplesso cerco aiuto nel prezioso libro guida dei sentieri del nord del Lazio e solo allora mi accorgo di come è valorizzato il campo relativo alla segnaletica:”inesistente”. La guida mi fornisce comunque un indicazione univoca e precisa in virtù della quale è impensabile perdersi: ”per la vetta, in prossimità di un tornante, girare a destra abbandonando la strada principale”. Accipicchia,tanto valeva scriverci “arrangiatevi idioti che la domenica andate per boschi anziché seguire il campionato di calcio”. Giro comunque a destra (sic) e galoppo per un’altra decina di minuti al termine dei quali scorgo dei mai tanto benedetti raggi di sole: gli alberi sono finiti, sono Sopra Campo di Trevi,sotto il Monte. Inizia l’ascensione, una mezz’ora/40 minuti durante i quali per farmi forza e trovare la necessaria determinazione per salire in cima penso in ordine sparso ai seguenti argomenti: il 27 di ogni mese, il culo e le tette delle donne, la maestria raggiunta da alcuni birrifici italiani nella produzione di birra in stile belga, in Libia in questo momento stanno comunque peggio di te, forse a breve il costo della benzina potrebbe anche diminuire. Raggiunta la vetta cerco di recuperare una parvenza minima di tecnicismo e professionalità: scruto silenziosamente l’orizzonte pensando che laggiù, da qualche parte, ci deve essere il Gran Sasso.

 

mercoledì 11 gennaio 2012

Il Luparo

“Accomodatosi su di un grosso ramo di albero scelto in precedenza (frondoso e di grandi dimensioni) e predisposto tutto il necessario il cacciatore solitario riamane pazientemente in attesa dell’addentrarsi della profonda notte senza causare il minimo rumore e nel bel mezzo di un suggestivo coro di voci di animali, inizia pian piano il suo ululato a ripetizione aumentandolo gradatamente di volume, e ad intervalli se non riceve risposta. Una volta avuta risposta di accettazione da parte della belva, si chiude nel mutismo più assoluto in attesa che la stessa arrivi sul punto preciso del richiamo.

Il lupo arriva ma non cade facilmente nella trappola. Dopo lungo esitare è soprattutto la fame a convincerlo ad addentare la carogna che il luparo ha legato alla base dell’albero: le ganasce gli serrano le zampe. Il cacciatore che dall’alto dell’albero vede il lupo intrappolato dimenarsi ringhiosamente e mordersi gli stinchi fratturati per liberarsi dalla dolorosa morsa stringente, non ha fretta per discendere; lo farà dopo 15/20 minuti perché, non rispettando tale intervallo di tempo, potrebbe rimetterci la vita stupidamente.

Trascorso il termine di cui sopra, il luparo, scende dall’albero dalla parte opposta al luogo in cui è intrappolata la belva, portandosi appresso il forcone di cui è dotato, avvicinandosi alla belva ormai sfinita dal dolore e dalle forze; infila il collo del lupo tra le due corna del forcone e lo comprime a terra con tutta la sua forza sin tanto che la bestiaccia non muoia senza dare più segni di vita. Subito dopo, il cacciatore, tira fuori il suo coltello a spadino ed inizia l’operazione di scuoiamento recuperando la pelle per poi essiccarla, riempirla di paglia o trucioli ridando alla stessa la identica forma di quando era viva, con la bocca piena di denti propri, con la lingua di fuori.

Con tale carcassa, così malamente imbalsamata, il luparo fa la questua per le borgate e da ultimo va in municipio, dove incassa la taglia.”

Da AA.VV. La montagna Teramana


Il luparo mostra lo strumento principe del suo mestiere: la trappola. Archivio iconografico di Michele Mainelli  


martedì 10 gennaio 2012

Una doverosa introduzione

Nel settembre del 2009 ho cambiato casa. Mi sono trasferito da un vivace ma raccolto quartiere di Roma Sud abbastanza vicino al Colosseo a un caotico groviglio di palazzi, clacson e alimentari bangla in quel del Prenestino, Roma Est (zona notoriamente poco chic come confermatomi da una ragazza ad una recente cena); a parte una casa più grande e confortevole il passaggio mi appariva sostanzialmente deficitario.
Ignoravo però che nelle mie mani era stata messa un'arma potentissima. La passione per carte geografiche e atlanti vari mi fece subito notare che a pochi passi da casa mia era posizionato il punto di partenza verso il  centro del mondo, la porta d’ingresso all’eden, il segreto mai svelato fino in fondo del sacro graal: il Km. 4,9 del "tronco di penetrazione urbana" dell’autostrada A24 o strada dei parchi, la strada che porta a paradiso città (cit. Gianluca Grignani).
Carsoli, Valle del Salto, Magliano dei Marsi e altri caselli sono diventati nella mia vita nomi importanti al pari di Newark, Heathrow o Charles de Gualle. Da li è partita la costante scoperta di quelle che impropriamente (non me ne vogliano cartografi, comunità montane o ex assessori democristiani) chiamerò le Montagne di Roma: gli accoglienti e calmi Monti Del Cicolano, la seducente e bella Riserva della  Duchessa e il sinistro e ostico Parco Regionale del Sirente-Velino.
Qui raccoglierò racconti e foto di esplorazioni vecchie e nuove fatte in questi posti meravigliosi e segnalerò taverne e osterie di briganti e lupari che hanno accolto le mie stanche membra di ritorno dal faticoso cammino.