venerdì 13 gennaio 2012

Sul Monte Nuria. La salita.


Da qualche anno ho iniziato a camminare in montagna con una certa costanza e determinazione. Vado quasi sempre da solo anche se recentemente mi accompagna un fedele cane di nome Kira. E’ però da qualche mese appena che ho capito definitivamente che la bellezza e l’intensità delle escursioni non sono in alcun modo collegate all’altezza delle cime da espugnare (quando ci sono). Questa banale e demenziale verità mi è stata svelata dalle esplorazioni dei Monti del Cicolano, dove la mancanza di una vetta cazzuta al di sopra  dei 2.000 metri è però ampiamente ripagata da boschi, fossi e valichi in cui ad ogni momento ci si aspetta di imbattersi in Gandalf e la Compagnia dell’Anello tutta.

Dopo il Cervia e il Navegna con molte aspettative decido quindi, domenica 1 maggio 2011, di puntare senza paura verso il Monte Nuria. Kira e io usciamo di casa alle 6 del mattino. Consueta colazione all’area di servizio "Civita" al Km.54 dell’A24, il mio autogrill preferito: qui è infatti possibile trovare la più merdosa brioche al cioccolato dell’intera rete autostradale italiana e  accompagnarla con un mediocre cappuccino. Per me è però un rito sacro e irrinunciabile: l’ultima sosta nella brutale e fetida società civile condita con una Marlboro rossa, prima dell’immersione nell’incontaminata natura.

 Alle 7 e un quarto sfondo il casello Valle del Salto (l’idea è di raggiungere il Nuria partendo dal Piano di Rascino) e punto verso Rieti:seguo la statale 578 per circa 5 o 6 km fino a Fiamignano, dove si gira a destra e si inizia a salire verso il Piano. Dopo altri 5 o 6 Km (boh) inizia la sterrata (e il contestuale coro di bestemmie per i crateri della stessa che aggrediscono senza pietà i miei ammortizzatori/sospensioni)  che porta al punto di partenza della camminata.

Inizio a nutrire un’avversione importante per i pianori antropizzati: in tutti si avverte il tentativo di monetizzare la bellezza, il successivo fallimento e il conseguente abbandono dei progetti. Anche il Piano di Rascino evoca in me questi cupi pensieri e per protesta snobbo gli omonimi lago e castello (ruderi) e parcheggio la mia macchina dolorante  iniziando l’avventura verso il Nuria.
Si comincia subito a salire su una strada sterrata bruttina, che costeggia qualche isolata abitazione bruttina e dopo una curva  arriva ai piedi di una raduretta, bruttina. Il tempo di attraversarla e ci si riconcilia con il mondo; la felicità avanza nel petto mentre  un ampia mulattiera sterrata costeggia questa meraviglia:




Siamo al Lago di Cornino, 1.306 metri d’altezza e tanta bellezza. La mulattiera avanza decisa e taglia tutto il Piano di Cornino: un’immensa distesa di verde protetta da un involucro di monti invita all’attraversamento; canticchio qualche canzone idiota mentre Kira corre, salta e mi sbava addosso. Rifletto sulla pace di questo posto assicurata dalla lontananza dell’uomo: proprio quando queste parole,l-o-n-t-a-n-a-n-z-a dell’u-o-m-o, si dilatano nella mia testa noto a terra una macchia verde più scura delle altre. Fremo immaginando l’ennesimo spettacolo naturale che sta per palesarsi davanti agli occhi e mi avvicino in fretta pieno di entusiasmo  per osservare lo strano fenomeno: che meraviglia, sono i resti di un enorme e merdoso palloncino della Coldiretti che deve evidentemente essersi sentito profondamente solo in qualche manifestazione a Rieti e ha deciso di venire a morire al Piano di Cornino (che nel frattempo ho attraversato completamente e che saluto fotografando questo bell’albero) .



Il Nuria mi aspetta. Percorro una silenziosa faggeta: il marrone regna,inizia a piovere ma io mi sento protetto dai miei vecchi alberi, Kira pattina sulle foglie e addenta bastoni in continuazione; la salita è così piacevole che solo dopo 40 minuti inizio a chiedermi dove cazzo sono finito. Perplesso cerco aiuto nel prezioso libro guida dei sentieri del nord del Lazio e solo allora mi accorgo di come è valorizzato il campo relativo alla segnaletica:”inesistente”. La guida mi fornisce comunque un indicazione univoca e precisa in virtù della quale è impensabile perdersi: ”per la vetta, in prossimità di un tornante, girare a destra abbandonando la strada principale”. Accipicchia,tanto valeva scriverci “arrangiatevi idioti che la domenica andate per boschi anziché seguire il campionato di calcio”. Giro comunque a destra (sic) e galoppo per un’altra decina di minuti al termine dei quali scorgo dei mai tanto benedetti raggi di sole: gli alberi sono finiti, sono Sopra Campo di Trevi,sotto il Monte. Inizia l’ascensione, una mezz’ora/40 minuti durante i quali per farmi forza e trovare la necessaria determinazione per salire in cima penso in ordine sparso ai seguenti argomenti: il 27 di ogni mese, il culo e le tette delle donne, la maestria raggiunta da alcuni birrifici italiani nella produzione di birra in stile belga, in Libia in questo momento stanno comunque peggio di te, forse a breve il costo della benzina potrebbe anche diminuire. Raggiunta la vetta cerco di recuperare una parvenza minima di tecnicismo e professionalità: scruto silenziosamente l’orizzonte pensando che laggiù, da qualche parte, ci deve essere il Gran Sasso.

 

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