martedì 3 aprile 2012

I fantasmi di Pizzo Deta.

Se mai nella vostra vita dovesse capitarvi di attraversare l’incantevole Valle Roveto, che da Avezzano si spinge fino a Sora attraverso i Monti Ernici e Simbruini, tenete sempre a mente questo prezioso consiglio: non nominate la montagna di Pizzo Deta. In questi marsicani generosi, allegri e chiacchieroni, che in poche ore demoliscono tutti i miei blandi pregiudizi sugli abruzzesi, evocare il Pizzo significa più o meno produrre lo stesso effetto che deve avere su Angela Merkel l’idea di un Fondo salva-Stati per arginare la crisi. Quando  con Giorgio e Michele esponiamo loro il progetto di avvicinarci alla vetta l’indomani, otteniamo  risposte unanimi, accompagnate da volti che subito si fanno cupi e tirati: morte, slavine, zecche e malasorte in generale. I dubbi in noi prodotti da questo contagioso ottimismo valligiano vengono fugati dalla bellissima luce che il giorno successivo illumina i nostri letti, e ci permette di osservare la montagna in tutto il suo splendore:


Più o meno alle otto di un mattino che sembra essere propizio ci lasciamo alle spalle il paese di Rendinara ed avanziamo su una sterrata ombrosa; una serie di tornanti, qualche bestemmia per la tracheite che affratella il gruppo e molta allegria ci conducono a quota 1.340 metri. In prossimità di un rifugio si apre lo splendido spettacolo del vallone del Rio, infiammato dal sole e solcato da rumorosi rigagnoli d‘acqua: osserviamo qualche chiazza solitaria di neve certi che si tratti di un fenomeno isolato, e un po’ consultando le “sacre carte”, un po’ seguendo le tracce di quattro escursionisti “dilettanti”, proseguiamo l’avvicinamento al Pizzo. Usciamo dalla bella gola protetti dal Monte del Passeggio che troneggia alla nostra destra e rapidamente abbiamo modo di constatare che la strada che ci aspetta è assolutamente sgombra dalla neve:




Per circa un’ora avanziamo ostinati, spesso affondando nel manto bianco che brilla in ogni suo punto e quasi acceca, consapevoli di non avere più alcuna speranza di sederci sulla vetta del monte; l’unica disperata motivazione che riusciamo a trovare per andare avanti è la consapevolezza che ogni metro guadagnato offre alla vista uno spettacolo migliore del precedente. A quota 1.800 una calda e comoda roccia invita a fare il punto della situazione: sputo le mie tonsille e penso a quel residuo di giovinezza che se ne è andato per sempre, i pantaloni di Michele presentano preoccupanti squarci che non avevo notato alla partenza e l’unica cosa che si para davanti a noi è una parete da scalare. Mentre in me si fa largo il pensiero di interrompere questa stancante via crucis e Michele si adagia arrendevole sul masso per dedicarsi all’abbronzatura, le spalle di Giorgio ci sfidano apertamente: avanzano verso il cielo, io rivedo davanti ai miei occhi lo scatto di Pantani sul Mortirolo e mi lancio all’inseguimento per non essere tagliato fuori dalla leggenda. Ad una manciata di metri dalla Sella del Brecciaro ho le idee molto chiare: intimo a Giorgio di aspettarmi e non appena l’ho raggiunto lo invito ad andarsene per seguirne l’esempio; dietro di noi sopraggiungono decisi Michele e il suo moto d’orgoglio. Sono le undici in punto quando i nostri occhi rendono il dovuto omaggio alla bellezza di Pizzo Deta:



Questa passeggiata è dedicata a Nonna Consilia, a cui avremmo dovuto portare un fiore, e a suo nipote Mattia che tanto l’ha amata.                              
                         


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