martedì 10 settembre 2013

La vita agra



Dicevano così, te lo ricordi?E se poi fosse soltanto una questione politica, io saprei il da fare. Se si trattasse soltanto di aprire un vuoto politico, dirigenziale, in Italia, con pochi mezzi ci riuscirei. Il progetto l’ho già esposto altrove, ed è semplice. Mi basta da un massimo di duecento a un minimo di cinque specialisti preparati e volenterosi, e un mese di tempo, poi in Italia ci sarebbe il vuoto. E nemmeno con troppe perdite: diciamo una trentina, e nessuno dei nostri. Con trenta omicidi ben pianificati io ti prometto che farei il vuoto, in Italia.
Ma il guaio è dopo, perché in quel vuoto si ficcherebbero automaticamente altri specialisti della dirigenza. Non puoi scacciarli perché questo è il loro mestiere, e si sono specializzati sugli stessi libri di quelli che dirigono adesso, ragionano con lo stesso cervello di quelli di ora, e farebbero le stesse cose. Lo so, sarebbero più onesti, dici tu, più seri, ma per ciò appunto più pericolosi. Farebbero crescere le medie, sul serio, la produttività, i bisogni mai visti prima. E la gente continuerebbe a scarpinare, a  tafanarsi, più di prima, a dannarsi l’anima.
No, Tacconi, ora so che non basta sganasciare la dirigenza politico-economico-social-divertentistica italiana. La rivoluzione deve cominciare da ben più lontano, deve cominciare in interiore homine.
Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non far nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunciare a quelli che ha.
La rinunzia sarà graduale, iniziando coi meccanismi, che saranno aboliti tutti, dai più complicati ai più semplici, dal calcolatore elettronico allo schiaccianoci.
Tutto ciò che ruota, articola, scivola, incastra, ingrana e sollecita sarà abbandonato.
Poi eviteremo tutte le materie sintetiche, iniziando dalla cosiddetta plastica.
Quindi sarà la volta dei metalli, dalle leghe pesanti e leggere giù giù fino al semplice ferro.
Né scamperà la carta. Eliminati carta e metallo non sarà più possibile la moneta, e con essa l’economia di mercato, per far posto a un’economia di tipo nuovo, non del baratto, ma del donativo.

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Avremo eletto per nostra dimora le zone meno abitate, cioè quelle che hanno clima migliore.
A poco a poco vedremo la nostra isola crescere, collegarsi con altre isole fino a formare una fascia di territorio ininterrotto.
 E un giorno saranno gli altri, gli attivisti, a ridursi in isola; poche decine di longobardi febbrili aggrappati a rotelle e volanti, con gli occhi iniettati di sangue. Forse non riusciremo mai a vincerli alla nostra causa, e resteranno lì a correre in circolo, a firmarsi l’un con l’altro cambiali, a esigerne il pagamento. Ridotti così in pochi, man mano che i meno saldi muoiono d’infarto, formeranno un cerchio sempre più angusto e rapido, fino a scomparire da sé.
E noi li staremo a guardare dall’esterno, sorridendo.
Il lavoro si sarà per noi ridotto quasi a zero, vivendo dei frutti spontanei della terra e di pochissima coltivazione.
Saremo vegetariani, e ciascuno avrà gli arredi essenziali al vivere comodo e cioè un letto.
Il problema del tempo liberò non si porrà più, essendo la vita intera una continua distesa di tempo libero.
Scomparsi i metalli, gli uomini avranno barbe fluenti.
Scomparse le diete dimagranti e i pregiudizi pseudoestetici, le donne saranno finalmente grasse. Scomparsa la carta, non avremo né moneta né giornali né libri.
Senza libri la letteratura dovrà tramandarsi per tradizione orale, e la tradizione orale non potrà non scegliere solo i capolavori.
Vedremo automobili ferme per via, senza più carburante, e le abbandoneremo ai giochi dei bambini, ai quali però nessuno dovrà dire che cosa erano, a che cosa servivano quelle cose un tempo.

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Nell’attesa che ciò avvenga,[…]

Luciano Bianciardi – La vita agra, 1961-1962      

giovedì 25 luglio 2013

Caro Gianni ti scrivo


Nel luglio del 1962 Montanelli scrive che “l’esempio di Mattei ci mostra questo spettacolo: un governo, un parlamento ed una burocrazia impotenti di fronte ad un funzionario che, potendo essere revocato ogni tre anni, nomina invece il ministro che dovrebbe controllarlo, impone un suo monopolio al di sopra di quelli che dovrebbe combattere, tratta direttamente coi governi stranieri e detta una sua politica estera spesso in contraddizione con quella dello Stato. Ognuno tragga le conclusioni che vuole”, perché lui, le sue le ha già tratte:” In nessun paese occidentale credo che non siano più accadute cose simili dalla fine del feudalismo”.

“Mattei” aggiunge però Montanelli “è un imprenditore d’altissimo bordo. Possiede non solo tutte le qualità, ma persino i difetti del grande costruttore: l’introversione, la mancanza di calore umano, la malinconia puritana, la tendenza monomaniaca a concentrare tutte le proprie facoltà sull’essenziale, la certezza quasi mistica di una missione da compiere, la capacità di mentire credendo nelle bugie e perfino commuovendosene.”

Ma della gigantesca quantità di denaro mossa dall’ENI, non una lira finisce nelle sue tasche. A tal proposito, continua Montanelli, “verrebbe da aggiungere ^purtroppo^, perché se così fosse tutto risulterebbe semplificato: avremmo soltanto un ladro in più, fra tanti che ce ne sono.” Ma Mattei è onesto. Non ritira nemmeno il suo stipendio perché lo devolve in beneficenza.

Come vive, dunque, che esistenza conduce quest’italiano così anomalo, che l’opinione pubblica internazionale accredita di un potere enorme e incontrollabile, perciò tanto temuto e criticato, ma anche tanto rispettato e ammirato?

Paradossalmente, proprio in questi anni di lotte ciclopiche, di grande impegno anche psicologico e di forte tensione, quando i suoi problemi hanno ormai caratteristiche globali e i suoi orizzonti sono planetari, Mattei vive nelle condizioni di massima semplicità. Il lusso e il denaro, come ammette anche il suo nemico Montanelli, non sono mai stati per lui un fine, pur apprezzandoli e sapendone godere i benefici. Li ha sempre considerati utili soprattutto, se non solo, come manifestazione del prestigio e strumenti del potere.

Della I.C.L., la sua piccola azienda chimica, ormai minuscola a confronto alle dimensioni nelle quali si muove Mattei, praticamente non sa più nulla: se ne occupa il fratello Umberto. Vive molto in ufficio, tra Milano e Roma. Quando si trova a Milano non abita più nel lussuoso appartamento di via Fatebenefratelli, che pure ha mantenuto. Utilizza la foresteria di Metanopoli, al tredicesimo piano del mitico “ 1° palazzo uffici”, il “covo dei veterani”; oppure, quando sarà costruito a San Donato, un appartamento del primo Motel Agip quasi come marchio dell’Eni all’inizio dei lavori per l’Autostrada del Sole. Nella capitale non ha casa, sta con la moglie in un minuscolo appartamento all’Eden, un albergo non lussuoso in via Ludovisi, vicino a via Veneto: un salottino, una camera da letto per lui e Greta, una per Boldrini, quando viene a Roma. In così poco spazio non può regnare l’ordine: sedie e tavoli soni pieni di scartoffie , di libri, di cornici. Quadri sono appoggiati per terra contro le pareti in attesa di decidere se acquistarli. In giro scodinzola Pierino, il cagnolino di Greta. Chi va a trovarlo si meraviglia di tanta semplicità: “vive come un poveretto”, è il commento di Angelo Rizzoli dopo una visita. Greta non è contenta di vivere così, ma non si lamenta: “Che ci facciamo di una casa?” le ripete lui, con una nota di rimpianto “non abbiamo figli, siamo sempre in giro…….un pensiero in meno, anche per te”. Argomenti di chi ha scarsa dimestichezza con la psicologia femminile, ma Greta, dolce e remissiva, finge di essere d’accordo. Solo verso la fine riuscirà ad avere un appartamento per sé a Roma, ma suo marito continuerà a vivere all’Eden.

Mattei in realtà interpreta questa sobrietà da grande manager francescano anche con una certa dose di snobismo e demagogia, com’è suo costume. Quasi con intenzioni didascaliche, dimostrative. Attribuendosi, ad esempio, una retribuzione inferiore a quella degli alti dirigenti dell’Eni. L’unico lusso che si concede è l’uso dell’aereo aziendale per andare a pescare o per altri scopi personali. Volare gli piace.

Fuori del lavoro, la pesca al salmone o alla trota rimane la sua principale passione. “Mi raccomando, scriva che per Mattei il petrolio è un hobby, il suo vero lavoro è la pesca”, dirà ad un giornalista. Ha una casetta modesta ma comoda nella valle di Anterselva, sulla Dolomiti, a 10 km da Brunico, a due passi dal confine austriaco, appena sotto si trova il pittoresco laghetto di Anterselva. Quando può si fa portare lì con l’aereo aziendale,a volte facendosi raggiungere al più vicino aeroporto dal fratello Umberto. Pesca nel lago oppure, indossando alti stivaloni di gomma, in qualche torrente della zona. “E’ l’unico modo in cui riesco a non pensare ai mie affari” confida. “Se, arrivato ad Anterselva, l’acqua è troppo torbida per pescare si fa riportare subito a Roma a Milano”, racconta Umberto: un giochino costoso, certo, ma, appunto, era il suo unico lusso.

A volte va a pescare in Scozia, nelle Highlands, o in Islanda. Dopo le battute di pesca gli piacciono i grandi pranzi, le tavole con gli amici, a parlare liberamente o a millantare avventure di pesca o di donne: in quelle occasione riaffiora quanto resta della sua natura semplice e provinciale.

venerdì 26 aprile 2013

Stiamo arrivando


ACHILLE (rimettendosi l’elmo)   Combattete voi come gli eunuchi, se volete; io mi sento un uomo, e se di questo esercito nessuno ardisce, affronterò io queste donne! A me non importa che indugiate qui, nel fresco degli abeti, pieni di voglia impotente, lontani dal letto della battaglia che le circonda: per lo Stige, sono d’accordo che torniate a Troia. Che cosa vuole da me, questa divina, lo so; messaggeri a sufficienza , alati, di traverso l’aria mi ha mandato, a sussurrarmi con mormorio di morte il suo desiderio. In vita mia, mai mi ritrassi di fronte ad una bella; da quando la barba mi è spuntata, amici cari, lo sapete, volentieri ho assecondato le voglie di ciascuna: se a costei, fino ad oggi, mi sono rifiutato, per Giove, per il dio del tuono, ciò è avvenuto perché non ho ancora trovato il posticino fra i cespugli, dove indisturbato, esattamente come il suo cuore vuole, prenderla ardente tra le braccia su guanciali di bronzo. In breve: andate, vi seguirò al campo greco; l’ora d’amore non può più tardare: ma anche se dovessi per intere lune e per anni fremere per lei: il carro, lì, lo giuro, non guiderò verso gli amici, e non rivedrò Pergamo prima di averla fatta mia sposa e di poterla trascinare per le strade a testa china, la fronte inghirlandata da ferite mortali. Seguitemi!         

Heinrich von Kleist - Pentesilea

venerdì 29 marzo 2013

A Gabriele



Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
 questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

22 marzo 1950.

Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Giulio Einaudi Editore  

giovedì 28 febbraio 2013

Alessio, Francesco e Lorenzo


L’ULTIMO BORGO

S’erano fermati a un tavolo
d’osteria.
                   La strada
era stata lunga.
                               I sassi.
Le crepe dell’asfalto.
                                           I ponti
più d’una volta rotti
o barcollanti.     

                           Avevano
le ossa a pezzi.
                              E zitti
dalla partenza, cenavano
a fronte bassa, ciascuno
avvolto nella nube vuota
dei suoi pensieri.
                             
                                   Che dire.
Avevano frugato fratte
e sterpeti.
                     Avevano
fermato gente – chiesto
agli abitanti.
                         Ovunque
solo tracce elusive
e vaghi indizi – ragguagli
reticenti o comunque
inattendibili.
                     
                           Ora
sapevano che quello era
l’ultimo borgo.      
                              Un tratto
ancora, poi la frontiera
e l’altra terra: i luoghi
non giurisdizionali.
                                
                                       L’ora
era tra l’ultima rondine
e la prima nottola.
                                     Un’ora
già umida d’erba e quasi
(se ne udiva la frana
giù nel vallone) d’acqua
diroccata e lontana.

Giorgio Caproni - Poesie inedite in volume (1974 – 1978)    

martedì 5 febbraio 2013

Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno




La stirpe di Labdaco è dunque oggetto dell’asprezza degli Dèi infuriati, Edipo ha ucciso la Sfinge, liberato Tebe, Edipo ha assassinato suo padre, sposato sua madre, e Antigone è il frutto di questo matrimonio. Così nella tragedia greca. Qui io mi discosto. Presso di me tutto resta eguale, eppur tutto è diverso. Che Edipo abbia ucciso la Sfinge e liberato Tebe è noto a tutti, ed egli vive ammirato e onorato, felice del suo matrimonio con Giocasta. Il resto è celato agli occhi degli uomini, e nessun presentimento a quello spaventoso sogno ha mai dato corpo. Solo Antigone lo conosce. Il modo in cui sia venuta a conoscerlo sta al di fuori dell’interesse tragico, e a tale riguardo ciascuno potrà abbandonarsi a congetturare come gli piace. In tenera età, prima ancora d’aver pienamente superato l’adolescenza, oscure allusioni di questo spaventoso segreto hanno momentaneamente preso la sua anima, finché la certezza d’un colpo la getta nelle braccia dell’angoscia. Qui, dunque, ho subito una determinazione del tragico moderno. L’angoscia è infatti una riflessione, e in tal senso è essenzialmente diversa dalla pena. L’angoscia è l’organo attraverso cui il soggetto s’appropria della pena e se l’assimila. L’angoscia è la forza del movimento attraverso cui la pena s’insinua nel cuore. Ma il movimento, tale movimento, non è rapido come quello della saetta, è successivo, non è una volta per tutte, ma diviene costantemente. Come un occhiata passionalmente erotica brama il suo oggetto, così l’angoscia guarda alla pena per bramarla. Come un irremovibilmente quieto sguardo d’amore sta intento sull’oggetto amato, così è l’auto-occuparsi dell’angoscia con la pena. Ma l’angoscia ha in sé un momento in più che la fa stare ancor più fortemente aderente al suo oggetto, perché essa e lo ama e lo teme. L’angoscia è una doppia funzione, da un lato è il movimento che scopre, che costantemente palpa e con questo tocco scopre la pena mentre vi gira attorno; dall’altro lato è improvvisa, pone in un attimo solo tutta quanta la pena, ma pur così che quest’attimo istantaneamente si scompone in una successione. L’angoscia in questa accezione è un autentica determinazione tragica, e il detto antico “quem deus vult perdere, primum dementat” si può qui realmente impiegare come verità. Che l’angoscia sia una determinazione della riflessione è mostrato dal linguaggio stesso, perché io dico sempre “che sono angosciato per qualcosa”, con la quale espressione separo l’angoscia da ciò per cui sono angosciato, e non posso mai impiegare l’angoscia in senso oggettivo, mentre invece quando dico “la mia pena”, posso esprimere tanto ciò per cui sono in pena quanto il mio pensare al riguardo. S’aggiunge inoltre il fatto che l’angoscia contiene sempre in sé una riflessione di tempo, perché non posso angosciarmi sul presente, ma solo per il passato o per il futuro, e il passato e il futuro, così opposti tra loro che ciò che è del presente scompare, sono determinazioni di riflessione. La pena greca invece è, come tutta la vita greca, del presente, e perciò è più profonda, ma minore è il dolore. L’angoscia appartiene perciò essenzialmente al tragico.
Søren Kierkegaard - Enten-Eller, Tomo Secondo, a cura di Alessandro Cortese (Adelphi, Milano 1980)