martedì 5 febbraio 2013

Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno




La stirpe di Labdaco è dunque oggetto dell’asprezza degli Dèi infuriati, Edipo ha ucciso la Sfinge, liberato Tebe, Edipo ha assassinato suo padre, sposato sua madre, e Antigone è il frutto di questo matrimonio. Così nella tragedia greca. Qui io mi discosto. Presso di me tutto resta eguale, eppur tutto è diverso. Che Edipo abbia ucciso la Sfinge e liberato Tebe è noto a tutti, ed egli vive ammirato e onorato, felice del suo matrimonio con Giocasta. Il resto è celato agli occhi degli uomini, e nessun presentimento a quello spaventoso sogno ha mai dato corpo. Solo Antigone lo conosce. Il modo in cui sia venuta a conoscerlo sta al di fuori dell’interesse tragico, e a tale riguardo ciascuno potrà abbandonarsi a congetturare come gli piace. In tenera età, prima ancora d’aver pienamente superato l’adolescenza, oscure allusioni di questo spaventoso segreto hanno momentaneamente preso la sua anima, finché la certezza d’un colpo la getta nelle braccia dell’angoscia. Qui, dunque, ho subito una determinazione del tragico moderno. L’angoscia è infatti una riflessione, e in tal senso è essenzialmente diversa dalla pena. L’angoscia è l’organo attraverso cui il soggetto s’appropria della pena e se l’assimila. L’angoscia è la forza del movimento attraverso cui la pena s’insinua nel cuore. Ma il movimento, tale movimento, non è rapido come quello della saetta, è successivo, non è una volta per tutte, ma diviene costantemente. Come un occhiata passionalmente erotica brama il suo oggetto, così l’angoscia guarda alla pena per bramarla. Come un irremovibilmente quieto sguardo d’amore sta intento sull’oggetto amato, così è l’auto-occuparsi dell’angoscia con la pena. Ma l’angoscia ha in sé un momento in più che la fa stare ancor più fortemente aderente al suo oggetto, perché essa e lo ama e lo teme. L’angoscia è una doppia funzione, da un lato è il movimento che scopre, che costantemente palpa e con questo tocco scopre la pena mentre vi gira attorno; dall’altro lato è improvvisa, pone in un attimo solo tutta quanta la pena, ma pur così che quest’attimo istantaneamente si scompone in una successione. L’angoscia in questa accezione è un autentica determinazione tragica, e il detto antico “quem deus vult perdere, primum dementat” si può qui realmente impiegare come verità. Che l’angoscia sia una determinazione della riflessione è mostrato dal linguaggio stesso, perché io dico sempre “che sono angosciato per qualcosa”, con la quale espressione separo l’angoscia da ciò per cui sono angosciato, e non posso mai impiegare l’angoscia in senso oggettivo, mentre invece quando dico “la mia pena”, posso esprimere tanto ciò per cui sono in pena quanto il mio pensare al riguardo. S’aggiunge inoltre il fatto che l’angoscia contiene sempre in sé una riflessione di tempo, perché non posso angosciarmi sul presente, ma solo per il passato o per il futuro, e il passato e il futuro, così opposti tra loro che ciò che è del presente scompare, sono determinazioni di riflessione. La pena greca invece è, come tutta la vita greca, del presente, e perciò è più profonda, ma minore è il dolore. L’angoscia appartiene perciò essenzialmente al tragico.
Søren Kierkegaard - Enten-Eller, Tomo Secondo, a cura di Alessandro Cortese (Adelphi, Milano 1980)

Nessun commento:

Posta un commento